Gli omaggi al regime di Castro uno sfregio alla democrazia

Gli omaggi al regime di Castro uno sfregio alla democrazia

Non è solo l’alone di romanticismo che da sempre circonda la rivoluzione cubana e i suoi eroi (Fidel Castro, Che Guevara), un tempo giovani e belli, a spiegare così tante dichiarazioni di omaggio alla memoria di Castro, dichiarazioni nelle quali il fatto che la sua Cuba fosse una dittatura, una prigione a cielo aperto, rimaneva pudicamente in ombra. C’è anche dell’altro. Due cause soprattutto.

Se nel diritto internazionale, con riferimento agli scambi commerciali, opera la clausola detta della «nazione più preferita», possiamo dire che in politica, nella politica occidentale, vale (con un piccolo cambiamento di significato) la clausola della «tirannia più preferita». In base a tale clausola, ad esempio, nella seconda metà del XX secolo era obbligatorio — da parte dei commentatori delle vicende pubbliche — condannare con veemenza i crimini dei nazisti ma non lo era — anzi, poteva suscitare il sospetto di filofascismo — fare la stessa cosa con i crimini dei comunisti (variante sovietica o variante maoista che fosse): gli ammazzati dalla sinistra, per molti, valevano meno degli ammazzati dalla destra.

Il giudizio positivo sull’Urss veniva esteso, nello spirito della suddetta clausola, a tutte le rivoluzioni di ispirazione analoga. Si noti che questa usanza non era praticata solo all’interno del mondo comunista, come sarebbe stato normale. Anche molti non comunisti (spesso per tema di essere tacciati di criptofascismo dagli esponenti del suddetto mondo) usavano due pesi e due misure.

Per inciso, quel modo di fare fu esso stesso causa di divisioni aspre qui in Europa. Ad esempio, fu all’origine della rottura, in Francia, dell’antica amicizia fra il sociologo liberale Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. La clausola della «tirannia più preferita» è sempre operante. Basta leggere le dichiarazioni sulla morte di Fidel di autorità europee varie (da Juncker a Mogherini) e altri ancora. Nessuno di loro avrebbe mai usato parole altrettanto deferenti, poniamo, per la morte del Generalissimo Franco.

L’idea che avere guidato una rivoluzione contro un regime corrotto e oppressivo sia un titolo di merito tale da oscurare tutto ciò che è avvenuto dopo, è figlia, oltre che di un diffuso antiamericanismo (Batista, l’ex dittatore deposto da Castro, era legato agli americani), anche di un pregiudizio: la clausola della «tirannia più preferita» per l’appunto.

È la stessa ragione che spiega perché tanti europei, abbagliati dal mito della rivoluzione, abbiano pensato che fu un grande merito di Cuba rappresentare, per anni e anni, un faro, un limpido esempio di (auto) «liberazione» per un continente latinoamericano oppresso da dittature militari. Fu un grande abbaglio. Le sorti dell’America Latina migliorarono nettamente quando, crollata l’Unione Sovietica, vennero meno le ragioni geopolitiche che, in precedenza, avevano spinto gli Stati Uniti ad appoggiare varie dittature latinoamericane in funzione antisovietica e anticomunista. Solo allora arrivò la «liberazione» (ma non a Cuba).

 nella politica occidentale, vale la clausola della «tirannia più preferita»
 C’è poi una seconda causa. Vale certamente per l’Italia, uno dei Paesi europei le cui tradizioni politico-culturali hanno diverse affinità con quelle latinoamericane. Basta guardarsi intorno: qui da noi i «peronisti» (di destra e di sinistra) sono sempre in gran numero. È un Paese, il nostro, in cui circolano sovente idee confuse su che cosa sia la democrazia, e quali ne siano i requisiti indispensabili.
Per alcuni, ad esempio, la democrazia implica il «consenso del popolo», ossia della stragrande maggioranza. Sbagliato. Anche le dittature possono, almeno in certe fasi storiche, godere del consenso dei più. Per aver detto ciò del fascismo italiano Renzo De Felice fu oggetto di linciaggio morale. Lo fu perché i linciatori non sapevano che non è affatto «il grado di consenso del popolo» a decidere se abbiamo a che fare con una democrazia o con una dittatura.
A deciderlo sono invece due condizioni: in primo luogo, le protezioni, legali e sostanziali, di cui gode la minoranza, l’insieme di coloro che criticano il governo e, in secondo luogo, l’esistenza di regole del gioco che consentano ai cittadini di cacciare e sostituire i governanti. La Cuba di Castro non ha goduto di nessuno di questi due requisiti. Perché allora tanta deferenza nei confronti di un dittatore? È rimasto così a lungo al potere per la semplice ragione che nessuno poteva cacciarlo via.

Ma, si dice, la dittatura castrista ha avuto anche meriti. Fermo restando che è stata un disastro sia dal punto di vista politico che da quello economico qualche merito — per esempio, nel campo dell’ istruzione — lo ha avuto. Poiché al mondo ci sono sempre luci e ombre, capita che anche le dittature possano vantare questo o quel merito. Ma ciò nulla cambia rispetto alla natura del regime.

Possiamo limitarci a trattare come innocuo folklore certe dichiarazioni in morte di Fidel? Non del tutto. No, soprattutto perché in Europa la democrazia è di nuovo minacciata da forze in ascesa che non nascondono la loro insofferenza per i vincoli e i limiti che le democrazie liberali pongono all’agire di coloro che dichiarano di interpretare la «volontà del popolo».

È per questo che è così importante insistere sulla distanza, anche morale, che separa le democrazie dalle dittature. Anche queste ultime, siano esse uscite da rivoluzioni o da colpi di Stato, pretendono sempre di agire in nome del popolo. Con risultati generalmente pessimi. A Cuba e ovunque.

Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 1 dicembre 2016

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