Settant’anni fa Einaudi veniva eletto Presidente della Repubblica

Settant’anni fa Einaudi veniva eletto Presidente della Repubblica

Settant’anni fa Luigi Einaudi veniva eletto Presidente della Repubblica. L’editoriale di Sara Garino su bdtorino.eu

Per quanto concerne la Politica italiana del secondo dopoguerra, l’anno 2018 si configura davvero come denso di ricorrenze. Celebrato il settantennio dall’entrata in vigore della Costituzione e rammentate le gloriose elezioni del 1948 che, giustappunto settant’anni or sono, videro il netto prevalere della D.C. sul blocco delle Sinistre, ricorrono in questi giorni le sette decadi dall’elezione di Luigi Einaudi quale secondo Presidente della Repubblica.

Le votazioni si svolsero infatti nelle giornate del 10 e 11 Maggio 1948.

L’illustre liberale piemontese, già Deputato dell’Assemblea Costituente nonché Vicepresidente del Consiglio, Ministro del Bilancio e Governatore della Banca d’Italia in carica, venne eletto al quarto scrutinio, ottenendo la maggioranza assoluta dei consensi. La sua candidatura fu promossa da Alcide De Gasperi, una volta constatata la sostanziale impossibilità di far eleggere al Quirinale il repubblicano Carlo Sforza, all’epoca Ministro degli Esteri, inviso all’ala della Democrazia Cristiana capeggiata da Giuseppe Dossetti.

L’eredità di Einaudi presidente

Quale munifica eredità culturale e di valori ha comportato la decennale permanenza di Einaudi all’interno delle Istituzioni, prima del Regno e successivamente della neonata Repubblica?

Su tutto, vanno rammentati l’indefesso impegno e l’operosa responsabilità sempre profusi nel perseguimento del bene collettivo, sulla scorta tanto delle proprie convinzioni e dei “sentimenti suoi paesani” quanto del doveroso rispetto verso l’ “opinione, chiaritasi dominante, sulle altre” espressa di volta in volta dalla volontà dei cittadini.

Tale concetto (forse oggi un po’ obnubilato dall’attuale classe dirigente politica…) venne subitamente sottolineato da Einaudi, proprio nell’ambito del giuramento che prestò in data mercoledì 12 Maggio 1948. Egli rimarcò infatti come, pur essendosi ab origine espresso in favore della Monarchia, il suo contributo “al nuovo regime repubblicano voluto dal popolo” fosse stato, responsabilmente, “qualcosa di più di una mera adesione”, poiché accresciuto dall’evidenza di un passaggio istituzionale “meraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo avveramento” e capace di fornire al mondo “la prova che il nostro Paese era ormai maturo per la democrazia”.

Per Einaudi infatti, la Politica non assurgeva solo a coscienzioso esercizio del potere, col viatico di argomentazioni rigorose e presentate in modo convincente. Essa significava altresì lasciarsi talvolta convincere dai pareri altrui, provando “la gioia di essere costretti […] a confessare a se stessi di avere, in tutto od in parte, torto e ad accedere […] alla opinione di uomini più saggi di noi”.

Trattasi di un’umiltà genuina e laboriosa, mutuata dal ligio encomio dell’impegno e della fatica, precipui di quella alacre e fruttifera terra piemontese in cui Einaudi sempre dimostrò di essere saldamente radicato.

Perché – sostenne ancora nell’ambito del suo discorso d’insediamento – se è compito della Costituzione “garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza”, risulta tuttavia onere del singolo dare concreto e fattivo slancio all’espressione dei propri aneliti personali, spendendosi in primis per perseguire un’autorealizzazione (economica e umana) la quale, alla fine, vada a beneficio della collettività tutta.

Einaudi contro lo statalismo

In questo senso, il liberale Einaudi aborrì sempre l’imbelle neghittosità degli spiriti pigri, nonché l’inerzia di un apparato statale eccessivamente burocratizzato e dedito a pratiche di sterile assistenzialismo.

All’uopo, nell’ambito di un articolo redatto per il Corriere della Sera nel Maggio 1961, Einaudi significò come la beneficienza cieca sia cosa ben distinta da una buona e oculata amministrazione. Infatti “non si compiono opere di bene, non si incoraggiano le scienze e le arti, se prima qualcuno non ha creato i profitti, i redditi netti. […] Si può, temporaneamente, […] usurpare la fama di mecenati o di politici socialmente illuminati; ma la nemesi è sicura. Col falso, col disavanzo, con le perdite non si costruisce l’avvenire e si distrugge la fatica del passato”.

Argomento, quest’ultimo, tristemente attuale oggidì, a fronte di uno stantio e liso malgoverno che spesso, per pura volizione elettorale, preferisce regalare al cittadino un pesce in luogo d’insegnargli produttivamente a pescare. Inseminando così nel suo animo l’indolenza, condita con l’erronea convinzione che lo Stato debba, sempre e comunque, supplire a eventuali manchevolezze dei singoli.

Per contro, Einaudi additò sempre positivamente l’insegnamento della Marchesa Adele Alfieri di Sostegno (1857-1937), epigona delle famiglie Alfieri e Cavour, la quale si distinse per l’esigente scrupolosità con cui gestiva i propri dipendenti. Conscia – secondo il Presidente – di come “operando diversamente si incoraggiano i poltroni e gli inetti e si persuadono i buoni a diventare pessimi”, in sfregio della produttiva efficienza dimostrata dal buon padre di famiglia.

Conoscere per deliberare

In Politica come nella vita occorre avere previdente progettualità. Tanto i desiderata dei singoli quanto le istanze collettive ed elettorali necessitano dunque di visione programmatica: quest’ultima imperniata, giustappunto, sulla rigorosa e analitica consecutio temporum del prima conoscere, poi discutere e infine deliberare.

A nulla vale infatti il trascinante fervore dei propositi se esso non viene guidato da un coriaceo (perché ragionato) filo conduttore. Nella sua opera Le prediche inutili (1959) Einaudi scrisse infatti che “non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare”… Donde l’affilata e costante invettiva contro gli scatoloni vuoti della demagogia e del qualunquismo, ove “la maggior parte delle parole adoperate sono sovratutto notabili per la mancanza di contenuto”.

Eppure svilisce constatare come, in specie oggi, questo fatto spieghi probabilmente la ragione del loro successo, “essendo legittimo il sospetto che le parole più divulgate siano state consaputamente o inavvertitamente scelte appunto perché […] adattabili a qualsiasi azione il politico deliberi poscia intraprendere” una volta raggiunto il potere.

Insomma, l’apologia della banderuola, del programma per tutte le stagioni (e per tutti quelli che intendano sottoscriverlo), dell’inconsistenza totale. All’uopo, quanto sarebbero oggi utili e applicabili le Prediche inutili?

Se osservate, quanto striderebbero con il bieco protagonismo di un confronto politico che, quasi sempre, non è sana contrapposizione dialettica ma ridicolo vaudeville? Esattamente come nella Scienza, anche la società e il progresso si alimentano sulla base di lotte e differenze. Senza variazioni e gradienti l’Universo andrebbe incontro alla morte termica: in termini di temperatura infatti, lo zero assoluto è sinonimo di stasi e assenza del divenire. Così, una collettività ove non si coltivino liberismo economico e liberalismo etico-civile è d’ufficio destinata all’arido immobilismo, alla stanca secchezza degli spiriti, alla vieppiù celere erosione delle passate ricchezze, senza che queste possano venir integrate dal frutto di nuove opere.

Qui s’inserisce altresì la denuncia einaudiana di uno Stato burocraticamente elefantiaco che, in luogo di farsi promotore e sostenitore di proposte e aspirazioni personali, assurge quasi a loro patrigno, sovente prodigo d’infingardi artifizi, funzionali solo a molestarle, incepparle e scoraggiarle.

Del resto, come scrisse Einaudi nel seppur diverso contesto di un articolo comparso sul Corriere della Sera il 5 Maggio 1921 (in occasione del centenario dalla dipartita di Napoleone Bonaparte), “all’uomo prodigioso non mancarono le forze; doveva necessariamente venir meno la cooperazione altrui”… Nel caso di specie, quella dello Stato: spesso prevaricante nell’esercizio delle proprie funzioni e, conseguentemente, dimentico del suo ruolo di guida discreta e non invasiva, autorevole ma non autoritaria, coadiuvante il cittadino senza però cadere nell’assistenzialismo a fondo perduto.

Dunque, così come il Corso “fu un grande generale perché fu un grande maneggiatore di uomini, suscitatore di energie” e abile, nello schema dei suoi calcoli strategici e tattici, a “far vibrare tutte le forze umane dell’ambizione, del valore […] del sacrificio”, allo stesso modo gli amministratori dovrebbero saper profittevolmente stimolare nei cittadini quel desiderio di crescita, di miglioramento e di nuovi traguardi che, nei secoli, tanto aiutarono il progresso (sia materiale sia umano) del Paese, specie nel secondo dopoguerra.

Gli insegnamenti che rimangono

Del magistero di Luigi Einaudi abbiamo dunque inteso sottolineare questo aspetto di sprone, questo nobile e continuo stimolo nel ricercare le maggiori risorse insite all’interno di noi stessi, meritorie d’essere espresse in seno a uno Stato che, davvero, sia liberale e meritocratico, oltre che trascinatore.

Esattamente come un marinaio tranita dell’antica Grecia il quale, vogando con più intensità e fatica rispetto ai rematori degli ordini inferiori, porta proporzionalmente profitto tanto a se stesso (in termini di maggior compenso economico) quanto alla velocità di spostamento dell’intera ciurma.

I dotti insegnamenti del Presidente Einaudi verranno mai interiorizzati appieno dal decadente siparietto dell’italica Politica? Com’egli scrisse in un saggio di Economia datato 1950, le gemme sapienziali sparse nei secoli dai dirigenti italiani non furono né poche né di poco pregio. Mancò chi le raccogliesse in una collana splendente, nondimeno “l’ufficio delle sparse gemme della scienza non è forse quello di stimolare sempre nuove indagini e nuove conquiste”?

E l’“opera di ogni generazione non è quella di servire da terriccio fecondo per l’opera delle generazioni future e così di seguito all’infinito”? All’infinito, seguendo ciascuno la propria Stella polare.

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