Il falso dio referendario

Il falso dio referendario

Un’altra candela s’è sprecata, sull’altare dell’urnolatria. Un altro sasso s’è aggiunto, alla frana che incombe su tutti. Il guaio più grosso è che tanti cittadini lombardi e tantissimi veneti possono ben dire: io ho votato.

È difficile, ora, dire loro: mi spiace, ma non è proprio così. Sarà complicato dirlo ai cittadini bellunesi, che hanno votato due volte: per l’autonomia dallo Stato centrale e per l’autonomia dal Veneto. Oggi è ancora giorno di sbandieramenti, ma saranno i soldi la sola e vera questione.

L’urnolatria gioca brutti scherzi. Lascia credere che nell’urna si posi la volontà popolare, per definizione nel giusto.

Ma i conti non tornano: se andate a vedere il voto del medesimo popolo, appena ieri, il 4 dicembre 2015, scoprite che il nord fu ben più generoso del sud, circa la conferma della riforma costituzionale, in cui si prevedeva una diminuzione delle autonomie regionali.

Qual è l’urna sacra: quella o questa?

Immagino la risposta: l’ultima in ordine di tempo. Ma così ragionando si dovrebbe non solo vivere d’urnomania, ma convocarle ogni giorno, casomai il capriccioso sovrano ci avesse ripensato.

Il dilemma si risolve considerando che, come insegna anche il buon senso e l’esperienza, le risposte cambiano se cambiano le domande. E se a una domanda rispondono tutti allo stesso modo, vuol dire che trattavasi di domanda sciocca o di domanda che ne presupponeva un’altra, nascosta.

Cominciamo da qui: i referendum sono stati convocati sulla base di leggi regionali; ci hanno messo anche il quorum, in Veneto, benché sarà difficile stabilire a cosa possa mai servire se agli elettori non chiedi di decidere, ma solo di fornire un’opinione.

Le Regioni, quindi, possono non solo convocare referendum, ma anche stabilire le regole.

Leggete gli articoli dal 116 al 123 della Costituzione, così come sciaguratamente riformata nel 2001: le competenze regionali sono talmente vaste che risulta difficile anche solo immaginare come possano essere ampliate. I quesiti, quindi, erano largamente ingannevoli, perché, ripeto, difficile immaginare più di ciò che già esiste.

Ma ne nascondevano un altro, di quesito: volete voi tenere in Regione i soldi delle tasse versati da chi ci abita e lavora? Occhio: non era mica questa la domanda, ma si è fatto finta che lo fosse. Giochino pericolosissimo, perché ora tanti possono dire: io ho votato. Un’altra cosa, inutile, purtroppo.

Dice il ministro Martina, bergamasco: parliamo di tutto, ora, ma non di soldi e fisco. È vero l’opposto: c’è poco di cui parlare, se non di soldi e di fisco. Parliamone: non esiste sistema fiscale che non preveda trasferimenti di risorse. Se non lo prevedesse sarebbe inutile.

A che serve una società in cui ciascun socio mette 10 e ciascuno ha diritto a prendere 10? A nulla.

Segnalo anche che fra quanti chiedono di tenere per sé i propri soldi ve ne sono non pochi che sono pronti a sbraitare contro i tedeschi, cui attribuiscono la stessa propensione. Ma lasciamo perdere.

Una quota di trasferimento fiscale è incancellabile. L’alternativa sarebbe una moltiplicazione della pressione fiscale, visto che ciascuno dovrebbe farsi propri tribunali ed eserciti.

Il punto politico, ovviamente, non è il se, ma il quanto. Chiedere che sia meno dell’attuale è non solo lecito, ma sano, visto che lo Stato costa troppo. È da vedersi, però, che le Regioni costino meno.

E qui si arriva al punto. Dire: vogliamo tenerci i soldi che sborsiamo, non funziona.

Va detto in modo diverso: paghiamo il dovuto allo Stato, chiedendo che sia meno di quel che scuciamo ora, il resto stabiliamo noi se tassarlo, quanto tassarlo, come riscuoterlo e come spenderlo.

Così ha senso. Non la Regione che chiede per sé il 90% dei soldi riscossi dallo Stato, ma un sistema in cui lo Stato (stando a quelle folli percentuali) riscuote il 10% e il resto si vede in Regione. In omaggio al principio: le tasse le mette chi spende i soldi.

E viceversa: chi spende i soldi trovi le risorse. Giusto.

Poi c’è la variabile Belluno: voglio farlo in provincia, non in Regione. I referendum, pertanto, hanno aperto la strada a una crescita della fiscalità regionale, senza chiudere la porta a una richiesta d’autonomia dalla regione stessa.

Nessuno legga queste righe come scherno, o soddisfazione per quel che non può funzionare. L’opposto: sono state scritte per suggerire che il problema non è in quei due quesiti, largamente farlocchi, ma in quel che comporta la risposta: la morte della politica, il lievitare d’un’urnocrazia i cui falsi dei cadranno di certo, ma non senza rovine e dolori.[spacer height=”20px”]

Davide Giacalone, 23 ottobre 2017

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