Ernesto Paolozzi

L’identità liberale nella società complessa

Nell’aprile del 1947 i liberali di diciannove nazioni si riunirono ad Oxford, in “tempi di disordine, povertà, carestia e paura causati da due guerre mondiali” per stilare un Manifesto di principii e di intenti.

Si riproducevano, in quel documento scarno, chiaro e appassionato, i capisaldi del liberalismo classico, dalla fede giusnaturalistica nella capacità dell’uomo di distinguere fra il bene e il male, alla fede nella libertà economica, senza la quale non è possibile la libertà politica. Lo stato era definito uno strumento della comunità, la democrazia inseparabile dalla libertà. A temperare l’economicismo del libero mercato erano richiamati diritti sociali fondamentali. Ogni uomo deve godere della possibilità di una piena e varia educazione, e della sicurezza dai “rischi di malattia, di disoccupazione, incapacità e vecchiaia”. Allo Stato totalitario si contrapponeva uno Stato libero e sociale. Si richiamava “l’eguaglianza dei diritti fra uomini e donne”.
Il mondo era stato dilaniato dalle guerre fra le democrazie liberali e il totalitarismo di destra e si apprestava ad assistere alla grande sfida lanciata dal totalitarismo comunista che si sarebbe conclusa solo alla fine degli anni ottanta con l’implosione e l’esplosione dell’Unione Sovietica.

E’ passato mezzo secolo e siamo tutti chiamati a ripensare quel Manifesto e a prefigurare l’azione politica futura nei termini di un nuovo, consapevole, liberalismo.
In questi anni abbiamo imparato che la libertà non si conquista e non si perde in via definitiva; che ottimismo e pessimismo sono categorie psicologiche puramente soggettive; abbiamo sperimentato che il libero mercato non garantisce di per sé la libertà politica e che, senza regole, spinge gli uomini in una sorta di guerra di tutti contro tutti. Siamo stati altresì spettatori del declino dello Stato sociale, in alcuni momenti storici degenerato in Stato paternalista, tendenzialmente dispotico, di un mite dispotismo. Abbiamo avvertito l’esigenza che la riaffermazione dei principii fondamentali sia costantemente accompagnata dalla verifica e dall’innovazione rispetto alla concreta attuazione politica di quei principii stessi.

Il liberalismo, dunque, da un lato sembra aver vinto la sua ormai secolare battaglia contro il comunismo, ma dall’altro sembra non riuscire a dominare la complessità delle moderne società ed è costretto a ripercorrere la sua stessa storia, a riconsiderare i suoi stessi principii ispiratori. Innanzitutto la difesa e la promozione della libertà e dell’individuo, fondamento di ogni dottrina liberale particolare, ha incontrato infinite resistenze; ha fronteggiato attacchi di tutti i tipi. Ma dagli avversari s’impara sempre qualcosa. Così, l’individualismo liberale ha dovuto accogliere le istanze sociali e comunitarie promosse dal socialismo e dai grandi movimenti a sfondo religioso.

All’interno stesso della cultura liberale (pensiamo a Croce e Berlin) si è esercitata una serrata critica all’idea che i diritti di libertà individuali fossero naturali, riconoscendo il ruolo della storia nel promuovere sempre nuovi e imprevedibili diritti che una concezione rigida o metafisica della natura umana non poteva prevedere.
Il problema, dunque, è quello di riconsiderare la categoria dell’individuo alla luce dei nuovi orizzonti della filosofia e delle recenti scoperte scientifiche. L’individuo deve poter essere inteso come il soggetto che possiede, per sua stessa natura, l’essere comunitario o etico, se per etico s’intende il suo essere relazione, il suo essere immerso nella storia e nella comunità. Il rispetto dei diritti degli individui non si può commisurare soltanto in conformità di regole universali ma astratte, ed è necessario ricostruire un sistema di garanzie che tenga conto dei bisogni e delle necessità delle comunità storiche, fin tanto che queste, com’è ovvio, non minaccino le libertà fondamentali, i diritti delle altre comunità. I liberali dovranno accettare, e vincere la sfida dei comunitaristi i quali, in ogni nazione, assumono volti e connotati diversi e peculiari ma, reclamano tutti, nella sostanza, rispetto della loro autonomia, e quindi della loro concreta libertà. Riconsiderare, insomma, il principio classico, liberale, della tolleranza.

Il rispetto e la difesa delle prerogative del cittadino rimane compito primario di ogni azione politica liberale nella consapevolezza che la libertà del singolo è garantita solo e soltanto da un sistema di garanzie della comunità in cui vive.
Compito di un moderno liberalismo è quello di superare l’opposizione fra storia e natura, comunità e individuo, creatività e rispetto delle regole. In questo orizzonte di pensiero, il rispetto delle garanzie individuali rappresenta l’utopia concreta, il punto di partenza e di arrivo dell’azione politica, il discrimine fra movimento liberale e ideologia totalitaria. Tutto ciò, naturalmente, nella costante consapevolezza che non esiste la soluzione definitiva, ma la continua, incessante ricerca del miglior assetto istituzionale e sociale possibile. La Costituzione di sistemi politici liberali coincide con la lotta per la continua riaffermazione dei principii liberali che quei sistemi intendono rappresentare.
E’ fondamentale per i gruppi politici liberali, troppo spesso divisi da una diversa sensibilità circa la qualità dell’intervento pubblico nel mercato, trovare una nuova unità attorno ad alcuni principii fondamentali in salvaguardia della libertà e dignità dell’individuo etico.

Fra liberalismo e movimento democratico si è istituito, col passare del tempo, un lento ma costante avvicinamento sul terreno politico, forse, più che non su quello strettamente filosofico. Sta di fatto che l’aggettivo liberaldemocratico, è ormai di uso comune e qualifica una vasta area di partiti e gruppi, di correnti di pensiero e, in ultima analisi, s’identifica con il sistema istituzionale che regola le nazioni del cosiddetto mondo occidentale. Tutti definiamo i nostri sistemi come società liberaldemocratiche o di democrazia liberale, secondo i gusti e le propensioni. Nella dichiarazione di Oxford è evidente il richiamo a temi tipici del movimento democratico e dello stesso socialismo non marxista. Negli ultimi anni, però, le democrazie liberali hanno dato segni di crescente decadimento e, in qualche nazione, di evidente crisi.
Rafforzatisi negli anni Settanta e Ottanta dopo l’attacco del comunismo, i regimi democratici si trovarono a dover fronteggiare nuove insidie, alcune tradizionali e altre relativamente nuove.

Alle prime possiamo ascrivere la rinascita, in tutto il mondo, di movimenti religiosi intolleranti ed aggressivi, il cosiddetto integralismo, il quale preme alle mura della liberaldemocrazia ma ha anche molti accampamenti all’interno delle mura stesse. Questo preoccupante fenomeno è strettamente collegato alla più generale questione dell’immigrazione favorita da un mercato di lavoro di livello mondiale assolutamente privo di leggi e regole morali e pratiche. Accanto al flusso migratorio e, quasi ad amplificare la portata, assistiamo ad una crisi endemica, il riflusso demografico, in parte legato all’esaurimento di valori, modi e stili di vita tipici della cultura occidentale. Potremmo stilare un lungo elenco di questioni a tutti note, dal crescere e diffondersi della criminalità alla lente, progressiva, consunzione di quei rapporti minimi di civiltà che costituiscono il contratto non scritto, il patto non codificato fra cittadini.
Si è detto, ed è certamente vero, che il crollo dei regimi comunisti ha provocato, di rimbalzo, una crisi all’interno del liberalismo e del movimento democratico, orfani dell’avversario e perciò sviliti e depotenziati. La nostra società, si è detto, e ripetuto, non sa fronteggiare i problemi, le esigenze, lasciati irrisolti dal movimento comunista internazionale. Da qui una sorta di dimenticanza della questione sociale che ha lentamente ricreato le condizioni per il rinascere di conflitti e antagonismi difficilmente interpretabili e governabili. Troppi gli esclusi e gli emarginati che non riescono a godere dei benefici di una società opulenta ma spesso iniqua.

Sono questi, sin qui sommariamente descritti, sono temi in parte scontati, le nostre democrazie devono affrontare una nuova minaccia: quella che potremmo chiamare la crisi della democrazia per eccesso di democrazia, ovvero la minaccia costituita dalla incapacità della politica di mediare, di costituire un meccanismo di rappresentanza che soddisfi, sia pure parzialmente, le esigenze della maggioranza e quelle delle minoranze in una cornice generale che vede il mondo appiattirsi in un diffuso conformismo, complici i media. Da qui il paventato divorzio fra il movimento liberale e quello democratico dopo anni di sostanziale alleanza. Torna l’esigenza di porre un freno al dilagante conformismo di massa senza favorire la nascita di nuove oligarchie. Questo tema s’intreccia e si confonde con le grandi questioni della crescita tumultuosa del progresso scientifico e con l’altrettanto impetuosa e disordinata crescita dell’economia a livello mondiale.

La nuova sfida dei liberali sarà quella, da questo punto di vista, di riuscire a garantire le libertà individuali minacciate dal disgregarsi della democrazia senza ripercorrere vecchie strade che riconducono al conservatorismo. Il recupero della creatività individuale (sul piano etico e culturale oltre che economico) e la corrispettiva esigenza di costituire garanzie e regole che permettano al singolo cittadino di sviluppare la sua personalità, devono potersi conciliare con il rispetto delle esigenze comunitarie e, soprattutto, delle esigenze economiche dei meno fortunati.

I liberali dovrebbero sforzarsi di rintracciare i sistemi e i modi per evitare che un eccesso di democrazia provochi la morte della libertà, a cui segue, repentinamente, quella della democrazia stessa: questa volta non per attacchi esterni o per stanchezza interna, ma per naturale e incontrollata espansione del democraticismo; non perché si cerchi, ingenuamente, nel totalitarismo l’antidoto alla crisi della democrazia, ma perché la democrazia, come aveva previsto in parte Tocqueville, si tramuta in totalitarismo sotto forma della tirannia della maggioranza.

Potremmo affermare che negli ultimi vent’anni il capitale è più avanti del lavoro. Volendo smettere questo linguaggio di tono marxiano, possiamo semplicemente dire: le aziende, grandi e piccole, hanno dato luogo, grazie alla tecnologia, ad un mercato unico mondiale, a quella economia che gli economisti definiscono globalizzata. I lavoratori hanno subìto questo processo, non sono stati in grado di comprenderlo e, dunque, neanche di orientarlo.

Compito dei liberali è quello difficile, ma non impossibile, di non ostacolare il processo di globalizzazione ma, al tempo stesso, di garantire i diritti dei lavoratori. Lasciare ad altri il compito di salvaguardare e promuovere i diritti dei lavoratori oltre che moralmente riprovevole, rappresenterebbe un imperdonabile errore di strategia politica. Gli avversari del liberalismo, in parte sconfitti negli ultimi decenni, troverebbero in questa indifferenza una insperata occasione di rivincita. Proviamo ad esemplificare.

In tutto il mondo occidentale la disoccupazione è diventata un fenomeno strutturale e, allo stato delle cose, irreversibile. Ai problemi contingenti o congiunturali (cicli economici, debito pubblico, deficit dello Stato. Etc.) si sono aggiunti due fattori difficilmente governabili: la spietata concorrenza della manodopera a basso costo dei paesi orientali postcomunisti (che certe volte raggiunge buoni livelli di specializzazione) e dei paesi africani ma, soprattutto, l’impetuoso crescere della tecnologia che modifica o divora il lavoro tradizionalmente inteso.

Nel primo caso, si tratta di un tipo di concorrenza che, usando i nostri parametri, potremmo considerare sleale oltre che, naturalmente, mortale per i diritti umani in quei paesi che la esercitano. Alle critiche rivolte ai governi e agli imprenditori di quei paesi, essi rispondono che non possiamo condannare la loro via allo sviluppo economico, per tanti aspetti simile a quella che anche gli occidentali intrapresero fra il Settecento e l’Ottocento.

Nel secondo caso, gli sviluppi della tecnologia e, più in generale. Dell’organizzazione del lavoro, tendono a sopprimere una gran quantità di posti di lavoro non sostituiti da quelli che la stessa tecnologia crea. Non solo: ciò che cambia è la qualità del lavoro. Saremo costretti a cambiare spesso occupazione, ad aggiornarci, a mutare luogo e condizioni di vita. Tutto ciò, oltre ad implicare profonde modificazioni di carattere psicologico ed a impegnare i governi a compiere radicali trasformazioni del sistema educativo, comporta anche una sostanziale impossibilità, da parte dei lavoratori, di difendere i propri interessi e i propri diritti. Le grandi aziende sostituiscono a piacimento i lavoratori, spostano rapidamente da un luogo all’altro del mondo i loro centri di produzione e gli interessi di mercato, nascondono la proprietà e i profitti, investono in finanza ed eludono facilmente i sistemi fiscali ed i controlli dei singoli paese.

Ciò che si profila all’orizzonte è la figura di un lavoratore mobile ma sradicato, colto ma inconsapevole, specializzato ma indifeso. La società politica e la società nel suo complesso non riescono a dominare questi processi che non modificano soltanto le strutture economiche, ma stravolgono l’intera civiltà del lavoro e, con essa, i fondamenti stessi della democrazia.

Reagire a questo stato di cose è compito precipuo dei liberali. Lo sforzo da compiere è quello, fondamentale, di saper cogliere le opportunità della globalizzazione e della fine del lavoro tradizionale anziché subire il mutamento come una biblica condanna. Diventa improcrastinabile cercare di individuare le forme e i modi attraverso i quali si potrà ridurre la quantità di lavoro: passare dalla tragedia della disoccupazione alla liberazione dal lavoro. Si tratta di rinvenire i modi per ridistribuire ricchezze e profitti incontrollati. E’ necessario internazionalizzare l’azione politica dei partiti e dei sindacati al fine di poter incidere sulla politica dei singoli governi e sulle scelte del capitale internazionale, non per mortificarlo o deprimerlo, ma per impedire che per sua stessa natura il capitalismo soffochi i diritti di democrazia e di libertà.

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