I giudici di Milano hanno rinviato ala Corte Costituzionale la sentenza relativa a Marco Cappato, imputato di istigazione al suicidio in relazione alla morte di dj Fabo, sollevando un’eccezione di incostituzionalità. L’imputazione sarebbe infatti in conflitto con alcune norme della nostra Costituzione, in particolare con l’articolo 13 che recita “La libertà personale è inviolabile… “.

Non si può non ricordare, a questo riguardo, come la requisitoria della pm al processo, anziché un atto di accusa a Cappato, si sia trasformata in una difesa della sua condotta e delle profonde ragioni umane che l’hanno motivata.

Come interpretare dunque la decisione dei giudici?

Si tratta di un espediente utile a disfarsi di un caso difficile e altamente problematico, come quello del suicidio assistito o si tratta di una mossa intesa a richiamare l’attenzione su un caso che rivela, per molti aspetti, la necessità di una revisione di un impianto legislativo ormai palesemente inadeguato?

Propendo decisamente per la seconda, alla luce del fatto che il nostro codice prevede per l’eutanasia due distinte ipotesi di reato: istigazione al suicidio e omicidio del consenziente. Dovremmo, a questo punto, onestamente chiederci se il comportamento di Cappato rientri in queste due fattispecie di reato.

Quanto alla prima, non si può in nessun modo rinvenire nel suo comportamento un’istigazione al suicidio, in base alla volontà chiaramente e risolutamente ribadita da Fabo di voler porre termine alla sua vita. Confesso, a questo riguardo, di essere rimasta molto scossa dalla dichiarazione di Fabo che, con tutte le difficoltà e i disagi che stava vivendo, si sforzava di esprimere nella maniera più inequivocabile la sua volontà di morire, e di essermi chiesta se uno stato civile avesse il diritto di imporre a un suo cittadino una prova così straziante.

Dovremmo considerare il suicidio come un reato di cui discolparsi o una colpa di cui giustificarsi o, viceversa, seguendo una tradizione filosofica che dagli stoici a Hume lo difende e lo sostiene, considerarlo un’affermazione di libertà?

È questo un punto di una delicatezza estrema e di un’importanza cruciale per uno stato che si consideri liberale e che difenda l’autonomia dei suoi cittadini, la sovranità su di sé, sul proprio spirito e sul proprio corpo di cui parlava John Stuart Mill.

Quanto alla seconda ipotesi di reato, mi sembra altrettanto difficile definire “omicidio del consenziente” il comportamento di Cappato, che si è limitato a rendere possibile e operante la volontà di suicidarsi di Fabo. Non solo non è ravvisabile neppure lontanamente una volontà omicida, ma ci troviamo palesemente davanti, in termini descrittivi, ad un aiuto al suicidio. Ora, è proprio questo il punto in discussione: il suicidio assistito.

Come definirlo? Come giudicarlo? Come normarlo?

La nostra legislazione appare, in questo come molti altri fatti indotti dai progressi delle tecnologie biomediche, in grande ritardo e incapace di rispondere alle nuove istanze che emergono tumultuosamente dalla società civile.

La sensibilità che è andata maturando in questi ultimi decenni e che è ispirata alla rivoluzione liberale indotta in medicina dalla bioetica, fa emergere la necessità di riflettere sulle nuove forme che assume la nostra libertà di decidere in merito alla fine della nostra vita, valorizzando il tema del consenso informato della persona, al centro della recente legge sul biotestamento.

Bene hanno fatto dunque a mio parere i giudici a rinviare alla Consulta una decisione che dovrà impegnare nel prossimo futuro la nostra classe politica, ponendo come indilazionabile una riforma della legislazione sul fine vita.

Luisella Battaglia, Il Secolo XIX 15 febbraio 2018

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