Resoconti

Associazione Amici della Fondazione Einaudi


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SINTESI DELL’ INCONTRO DEL 15 FEBBRAIO 2012
RITARDI, PRIORITÀ E RISORSE

SINTESI DELL’ INCONTRO DEL 14 MARZO 2012
LE RETI EUROPEE CHE ATTRAVERSANO L’ITALIA

SINTESI DELL’ INCONTRO DEL 9 MAGGIO 2012
VALICHI ALPINI, STRADE E FERROVIE

SINTESI DELL’ INCONTRO DEL 16 MAGGIO 2012
PORTI, AEROPORTI E AUTOSTRADE DEL MARE

SINTESI DELL’ INCONTRO DEL 13 GIUGNO 2012

LE OPERE CONTROVERSE: PONTE SULLO STRETTO, MO.S.E E TORINO-LIONE

L’incontro è stato il quinto e ultimo del 2012 della serie “Per un’Italia europea” dedicata alle “Infrastrutture per la coesione territoriale, la competitività e lo sviluppo”.
Relatori sono stati: Giuseppe De Rita, presidente del Censis;
Giuseppe Zamberletti, presidente di Stretto di Messina;
Gianni Letta, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Ha presieduto Mario Lupo.

Mario Lupo: Oggi concludiamo il ciclo degli incontri del Gonfalone del 2012, quest’anno dedicato alle infrastrutture.
Per realizzare un’infrastruttura, soprattutto se di grandi dimensioni, non bastano la volontà politica né le risorse finanziarie e imprenditoriali, né regole appropriate; occorre il consenso del territorio sul quale l’infrastruttura impatta e, quando si tratta di opere di maggior rilievo, occorre il consenso dell’opinione pubblica dell’intero Paese, senza il quale si hanno resistenze e controspinte. Tratteremo questo aspetto delle infrastrutture che non è solo italiano ma che in Italia ha connotazioni rilevanti.Giuseppe De RitaGiuseppe De Rita: Negli ultimi tempi la nostra società si è appiattita su se stessa e si sente suddita di poteri sovranazionali. L’unico sfogo per sentirsi se stessi – e per sentirsi qualcuno – sta nel fare gli antagonisti dicendo il contrario su qualsiasi cosa. Buona parte dei problemi delle grandi infrastrutture è che scatenano “antagonismo errante”. Nella tangenziale est di Roma c’è stata una manifestazione “no-tav” che i giornali dicevano piena di gente ma dove di contadini della Val di Susa ce ne erano pochi: c’erano giovanotti romani che giocavano all’antagonismo. Qualunque cosa si proponga di diverso da quello che già c’è fa scattare l’antagonismo: antagonismo sui rifiuti di Roma, antagonismo sulla “no-tav”, antagonismo sul ponte sullo stretto. Questa realtà vale anche per i piccoli comuni e le medie città.
L’antagonismo assume nelle grandi infrastrutture caratteri diversi da quelli relativi alle piccole; l’unica cosa che li unisce è il “dappertutto tranne che nel mio giardino”, cioè “non rompete le scatole qui dove ci siamo noi ma andate altrove”. E diversi sono la formazione sia del consenso che dell’antagonismo.
Per la Torino-Lione o il ponte sullo Stretto si ha bisogno di un consenso basato su un progetto, che sia nazionale e in alcuni casi internazionale e che abbia una logica che appaia indiscutibile. Come si fa a ostacolare in Val di Susa un opera che porta da Barcellona a Kiev e che è una decisa evoluzione del traffico dall’Ovest all’Est Europa? Come si fa a dire di non fare il ponte sullo Stretto se esso è il recupero di un’isola, un ponte verso il Mediterraneo e la riscoperta di una cultura mediterranea dell’Italia? In questi casi il consenso è frutto della capacità di muovere l’opinione pubblica. Ma questo consenso è diverso da quello relativo a un intervento specifico su un territorio piccolo, come è il caso dei rifiuti per i quali non è possibile un discorso generale; in questo secondo caso, e a proposito ad esempio dei rifiuti di Roma, va visto cosa significano Riano, Malagrotta, gli operatori che lavorano su Malagrotta e il modo in cui l’attuale padrone di Malagrotta si comporta: ci sono meccanismi di consenso e insieme di potere. Così come, restando a Roma, l’allargamento di Fiumicino crea un antagonismo spicciolo dove non ritrovi più neppure il sindaco: ritrovi il parroco, i centri sociali, aziende agricole locali che si mettono insieme. Come Censis abbiamo riunito coloro che si opponevano a questo allargamento ma non gli puoi dire che Fiumicino è l’hub del Mediterraneo e che con questo diventa il più grande aeroporto dell’Europa meridionale; non gliene frega niente. Quel po’ di consenso lo avevamo strappato dicendo che sarebbe stato fatto un distretto aeroportuale nel quale chi svolgeva qualsiasi attività si sarebbe ritrovato dentro. Era andata relativamente bene e poi l’allargamento si è bloccato perché AdR non ha potuto aumentare le tariffe per pagare i lavori.
Il meccanismo del consenso è diverso nei casi delle grandi e delle piccole infrastrutture. C’è sempre un processo di antagonismo forte ma mentre nelle grandi infrastrutture la creazione del consenso è un fatto generale e quindi politico, nelle piccole il problema è di consenso sociale in senso proprio: al dissenso e all’antagonismo su Fiumicino e Riano non è opponibile un grande disegno politico; in questi casi la gestione del consenso va fatta sul territorio in modo particolare e minuto. Si tratta di fare “fine tuning”; ma chiunque faccia opera pubblica non fa “fine tuning” ma fa dell’imperialismo: sono potente, ho un piano industriale, ho i soldi, è razionale fare l’opera e quindi vado avanti. È quello che è avvenuto con l’alta velocità in Val di Susa e che col tempo si è poi incancrenito. Col mandare poi l’esercito il processo non è più politico e si rinuncia al consenso, alla politica e alla capacità di mediare. L’imperialismo è un modo di procedere che si scontra con la realtà quotidiana, che crea altri microantagonismi e che porta all’impossibilità di procedere. Il consenso si ottiene con la capacità di fare politica nel “micro” e con una mediazione sociopolitica costante.
Quando negli anni ’80 partimmo con il ponte sullo Stretto, ottenere il consenso sembrava semplice e normale: l’opera era necessaria, c’erano i soldi e, pur nelle differenze progettuali sul fare un collegamento sotterraneo o di superficie, c’era tutto il necessario per procedere. Ma non si fece nessun atto sociopolitico.
Le grandi opere pubbliche hanno una rilevanza politica e bisogna giocare con questa rilevanza per creare consenso sociopolitico. E questo non tanto nel macro quanto nelle piccole realtà di cui è fatta l’Italia; nel momento in cui si cerca il consenso micro può scattare una serie di problemi che poi non permettono di tornare indietro ricorrendo alla volontà politica e al ristabilimento dell’ordine, fosse anche con l’esercito. È necessario che questo lavoro di “fine tuning” vada fatto per tempo; quando si parte il problema deve essere già risolto o quanto meno si deve capire dove si sta andando. Perché in Val di Susa hanno reagito così male? È come se non ci fossero mai andati e non avessero mai parlato con nessuno. Perché le reazioni alla discarica vicino villa Adriana? Anche lì è come se nessuno ci fosse mai andato e gli unici che parlano sono i giornalisti; che dicono che è in pericolo Villa Adriana – che non è del tutto vero – e che scatenano reazioni mentre l’autorità pubblica invece di fare mediazione sociopolitica nel micro afferma una linea pensando che arrivi a compimento solo perché razionale, sostenuta dal potere e perché “è bene farlo”.
Tutte le grandi infrastrutture italiane sono vissute sull’ “è bene farlo”.
Questo abbandono delle grandi infrastrutture dipende forse dalla loro saturazione e dalla paura che portino corruzione, ma dipende innanzitutto dal fatto che sulla grande opere c’è l’albagia di chi l’ha pensata e di chi vuole gestirla. Occorre cambiare atteggiamento altrimenti ogni cosa che facciamo sarà sempre di scala più piccola e sempre più capace di suscitare un antagonismo che è errante perché non si sa nemmeno da dove arriva. Se si vuol fare bisogna preparare prima e non andare a tentoni poi finendo col non fare.
Le infrastrutture hanno bisogno di consenso e il consenso oggi si costruisce sulla mediazione sociopolitica a livello micro; se non c’è questo non c’è altro.Giuseppe ZamberlettiGiuseppe Zamberletti: Dieci anni, fa esattamente in questa stagione, Gianni Letta mi comunicava che il Presidente del Consiglio Berlusconi aveva firmato il decreto di nomina del presidente della società dello Stretto di Messina. La cosa mi fece molto piacere perché su questo tema c’eravamo duramente battuti, come ci eravamo battuti sull’alta velocità quando essa non era popolare e tutto il Paese gli era contro. Quale la ragione di questi “contro”? Perché questo antagonismo errante? Il consenso che sostenne la costruzione della rete autostradale e delle grandi infrastrutture del dopoguerra in un Paese che più di oggi poteva dire pensiamo agli ospedali e alle scuole era dovuto a forze politiche capaci di rapportarsi con la società civile. Man mano che le forze politiche sono andate in crisi non sono state più rappresentative del consenso. Si va a cercare dove sistemare i rifiuti ma non si affronta il problema come negli altri paesi europei, non abbiamo il coraggio di far passare una linea moderna in questo campo e non parliamo di termovalorizzatori. Questo perché le forze politiche non contano più niente e non sono più capaci di provocare il consenso necessario per costruire le opere che si vogliono fare. C’è stato un continuo calare; l’alta velocità è stato l’inizio del crinale e adesso con la Torino-Lione, che è un’opera estremamente limitata, il crinale è stato ampiamente superato.
La Svizzera sta concludendo il traforo del Gottardo senza soldi europei. Le forze politiche della confederazione non sono potenti ma frutto di una grande tradizione democratica e il consenso l’hanno ottenuto attraverso la sfida del referendum. Non hanno chiamato a decidere la sola popolazione che subisce il fastidio dell’opera ma tutta la comunità che la paga; hanno trasferito la discussione in un ambito più grande. La sfida si fa nel Paese avendo il coraggio di farla. In questo modo si può forse anche recuperare il ruolo della politica e un rapporto con i cittadini sui grandi temi.
Questo è un secolo che ha fame di energia: i paesi a forte sviluppo come la Cina ne richiedono molta e il suo costo sale. Quindi la sfida di questo secolo è la sfida della riduzione dei consumi energetici. Ora il ponte sullo stretto è importante perché è un ponte ferroviario e perché trasportando con la ferrovia si consuma un quarto di quello che si consuma trasportando su strada: in un mondo che spinge verso alti consumi di energia la competitività di un Paese è legata ad una mobilità a basso costo; e a tal fine la questione ferroviaria è fondamentale. L’amministrazione Obama ha lanciato un programma, ancora limitato, di linee ad alta velocità quando gli americani avevano abbandonato la politica dalle ferrovie dai tempi dalla conquista del West; hanno capito che ridurre i consumi significa favorire la crescita.
La riduzione dei consumi energetici non sta solo nel mettere i pannelli solari sulle case ma nel consentire al traffico commerciale di arrivare sui mercati a condizioni favorevoli dal punto di vista dei costi. È per questo che il ponte sullo stretto e la Torino-Lione sono infrastrutture strategiche come già definite in passato.
Se il ponte sullo stretto non si realizza il Mezzogiorno è tagliato fuori e da Napoli in su comincia l’Europa mentre da Napoli in giù comincia il terzo mondo. Quando si cominciò a discutere del ponte non c’era ancora la società Stretto di Messina ma c’era la società privata Gruppo Ponte di Messina, con la FIAT, la Finsider e la Pirelli, che sono state le prime a pensare al ponte sullo stretto, ancor prima del governo Colombo; ora molti credono che sia stato il governo Berlusconi a pensare per primo al ponte mentre invece egli lo ha solo rilanciato. L’idea del collegamento con la Sicilia nasce nel dopoguerra pensando di realizzare o un ponte o un tunnel. Siccome lo sviluppo del sistema ferroviario ha tempi lunghi era indispensabile mettere sulla nuova linea anche il traffico stradale.
C’è la difficoltà del consenso e la facile obiezione che ci sono da fare altre cose; io mi domando quali sono queste altre cose. Già in passato ci hanno tolto finanziamenti dicendo che c’erano altre priorità; ma poi per le altre priorità non c’erano i progetti e non se ne fece nulla. Si tratta di una facile opposizione ideologica dovuta al fatto che non si riesce a creare una macchina del consenso robusta. Poi ci sono anche Alesina e Giavazzi che parlano delle infrastrutture come se non capissero che è giusto non caricare sulle spalle dei nostri nipoti il peso di un debito pubblico rilevante ma che non possiamo nemmeno lasciargli in eredità il deserto dei tartari; se gli lasciamo in eredità il deserto dei tartari poi non hanno sulle spalle un debito pubblico rilevante ma si trovano nelle condizioni di non poter produrre, né lavorare, né avere potere sui mercati. Giavazzi è anche un consulente del governo, e io ho un po’ paura se si dicono queste cose. Poi ci sono altri che vedono i lavori pubblici come i vecchi cantieri di lavoro del ’46 quando si facevano per far lavorare un po’ di gente. Ma non si fanno i lavori pubblici per far lavorare le imprese; li si fanno per lo sviluppo del paese.
Per il loro sviluppo i paesi asiatici hanno confidato anche sulla disponibilità dei mercati europei, e noi abbiamo con essi un certo interscambio: possiamo affrontare la politica della crescita cercando di richiamare sulle nostre opere strategiche le loro risorse. Dovrebbero essere interessati a collegarsi a un’area economica indispensabile per il loro sviluppo e la cui depressione avrebbe per loro conseguenze negative. Per il consenso invece non vedo altra strada che quella delle consultazioni popolari: dobbiamo scavalcare la mediazione dalle forze politiche che sono deboli e non in grado di mediare, rappresentare e aggregare il consenso.
I problemi riguardano il come mobilitare il consenso e il come mobilitare le risorse.
Mentre noi discutiamo del ponte di Messina e ci dicono che non ci sono le risorse, la Cina sta finanziando con 17 miliardi di euro il ponte fra Giava e Sumatra e a Istanbul Astaldi costruirà un nuovo ponte con un forte finanziamento cinese. Noi dobbiamo essere capaci di richiamare capitali. La Sicilia ha lo spazio, la dimensione e una struttura portuale da sviluppare che la possono far diventare il trampolino dall’Europa e per l’Europa; e la Cina ha davanti a sé una grande scelta geostrategica. In questi giorni il Golden Gate Bridge compie 75 anni; venne realizzato mentre l’America roosveltiana era in piena crisi e fu la grande sfida per uscire dalla crisi. Con quel ponte si aprì la strada verso l’est e verso la futura Silicon Valley che divenne poi una delle capitali dello sviluppo americano.

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