Quell’europeismo passatista che rischia di rubarci il futuro

Quell’europeismo passatista che rischia di rubarci il futuro

Europei si nacque. Europeisti si era. Antieurepisti o euroscettici lo si è diventati. Oramai la quasi totalità dei viventi è nata dopo la fine della seconda guerra mondiale, o mentre volgeva al termine.

Per chi è nato da questa parte della cortina di ferro l’Europa era il suolo dei natali, ma anche l’antidoto a che i nazionalismi riproducessero le guerre, che avevano funestato l’intera prima metà del secolo scorso.

Non tutti gli europei, però, erano in questa condizione, perché dall’altra parte della cortina di ferro nascevano sudditi di un impero. Quello sovietico.

Europeisti lo eravamo per normalità, molto anche per retorica, certo. Del resto, bastava non essere fascisti o comunisti per ritrovarsi in un ambito culturale in cui l’europeismo era pane di casa.

Antieuropeisti lo si è diventati dopo avere goduto dei benefici dell’integrazione, quando i molti errori commessi e l’affermarsi dei vincoli parametrali hanno consentito di operare la più fantastica delle falsificazioni: i conti dissestati, la spesa pubblica improduttiva, il debito stellare, la connessa demoniaca pressione fiscale, non erano più conseguenza delle scelte che si erano fatte, del diffondersi dell’assistenzialismo, delle reclamate elemosine di Stato, dei contrasti al dispiegarsi del libero mercato e della tenace difesa delle rendite di posizione, ma erano tutte colpe dell’Europa.

Ciliegiona sulla torta: la viltà delle classi dirigenti, politica e non solo, che anziché assumersi il compito di richiamare alla ragionevolezza e all’ordine hanno provato a scaricare il peso delle cose dovute su un’entità astratta e prevalente: ce lo chiede l’Europa.

C’è del buono, in questo percorso degenerativo, che buono non è. Una delle cose buone è che dirsi europeisti non è più lo scontato e indistinguibile luogo comune, praticabile in qualche adunanza domenicale o in qualche rituale celebrazione scolastica. Dirsi europeisti è diventato un problema, un’affermazione che desta reazioni vivaci. Taluni credono sia quasi segno di follia. E io sono un europeista.

Quello che si aggira per l’Europa non credo proprio sia il (solo) rifiuto dell’istituzione comune fin qui costruita, è uno spettro ben più minaccioso: il fantasma della memoria smarrita e corrotta. Il ricordo di un mondo largamente equivocato, che nel realismo delle esperienze individuali pretende di trovare la forza per superare l’eclatante irragionevolezza dei propri presupposti.

L’antieuropeismo del “si stava meglio prima” non fa appello ad un’arcadia lontana o ai miti imperiali delle storie nazionali, ma ad un appena ieri adulterato dall’amnesia.

A sua volta alimentata dal fatto che quando quel tempo era presente (appena ieri) lo si viveva come normale, lo si abitava da nipoti di nonni che volevano dimenticare due guerre mondiali e figli di genitori che volevano lasciarsi per sempre alle spalle la miseria e spesso la fame della loro gioventù, lo si percorreva sentendosi, giustamente, liberi e sicuri, ma solo perché facevamo finta di non sapere, e molti ignoravano del tutto, che eravamo immersi fino al collo nei postumi non superati della seconda guerra mondiale.

La ricordavamo come immagini di film, invece erano i confini della nostra vita reale.

Prima dell’Ue c’erano altre istituzioni europee, create con un percorso lungo, iniziato sessanta anni fa (il Trattato di Roma è stato firmato nel marzo del 1957).

Prima dell’euro c’era il serpente monetario europeo (Sme), da cui si poteva sì entrare e uscire, ma pagando prezzi consistenti, in termini di potere d’acquisto e ricchezza nazionale. Starne fuori a lungo esponeva a rischi micidiali, difatti rientravamo sempre.

Molte cose che si crede, oggi, non esistessero prima dell’Ue esistevano di già, sebbene con forme diverse. Ma allora cos’ha e cos’è questo mitico “prima”, che molti ricordano come esperienza personale e come regno del benessere crescente?

È il nostro mondo, la nostra Europa, ancora sfregiata e condizionata dalla seconda guerra mondiale. È il mondo in cui taluni sanno di essere liberi, ma sanno anche che la loro libertà ha dei limiti, mentre altri vivono sotto dittature illimitate.

È il mondo della guerra fredda, con la Germania divisa in due, l’Italia a sovranità condizionata (sono i due paesi sconfitti, non a caso), percorso da un terrorismo ideologico finanziato dal nemico militare e politico del nostro mondo, l’impero sovietico, nelle sue varie e differenziate articolazioni.

È il mondo in cui ci puntano addosso i missili nucleari e in cui noi decidiamo di far schierare missili nucleari che puntano dall’altra parte. Questo mondo, nella parte che noi abitavamo, ha raccolto le macerie della guerra e le ha messe al riparo dell’Alleanza atlantica, vale a dire sotto l’ombrello atomico statunitense.

E sotto questa copertura militare ha fatto crescere le proprie economie come mai era accaduto in passato. Sotto quella protezione ha espanso il proprio stato sociale, conquistando la salute e il benessere, con la relativa speranza di vita, che i nostri avi neanche sognavano.

Ma tutto questo proprio perché era un mondo lacerato, che per non cadere nella tentazione della guerra aveva dovuto considerare normale una pace che inglobava una sconfitta. Era chiaro a Winston Churchill, lo sapevano bene i governanti europei che della storia non avevano smarrito il bandolo, ma era stato dimenticato dai molti cittadini immersi in un presente senza passato. Anche perché quel passato era orribile.

Il passato è passato? No, è il futuro che rischia di essere perduto se non si riprende a pensare al posto di urlare, a ragionare al posto di propagandare. Il libro più italocentrico che ho scritto è quello che ora si trova in libreria: Via l’Europa Viva. Perché privo di quell’ancoraggio, anche di quel vincolo, certo, il nostro è un Paese alla deriva, preda dei propri fantasmi, degradato.

Ma questo non significa che l’Ue sia la nostra salvezza. Non basta. Serviamo noi. E qui all’Opinione abbiamo accudito e continueremo a far crescere quel che di meglio ha generato la cultura e la politica dell’Italia che non si commisera, ma cresce.

Davide Giacalone, supplemento L’Opinione aprile 2017

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