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Il caos innescato dall’inserimento del canone Rai nella bolletta elettrica era prevedibile e previsto, esattamente nei termini in cui s’è poi realizzato. Quel che non immaginavo è che i soldi di quelle riscossioni arriveranno dopo che la concessione Rai sarà scaduta e ben prima che sia rinnovata. L’articolo 49 del testo unico regolante il mercato televisivo, approvato nel 2005, al primo comma stabilisce che: “La concessione del servizio pubblico generale radiotelevisivo è affidata, fino al 6 maggio 2016, alla Rai”. E poi? Poi basta. Sembrava lontana quella data, ora è domani. Nel 2013 il governo Letta disse che bisognava sbrigarsi ad avviare le procedure per il rinnovo. Ma non s’è fatto nulla. Ora il governo Renzi si chiede: quel termine è da considerarsi perentorio od ordinatorio? Detto in modo comprensibile: vale veramente o si fa finta di niente? Cribbio, nella legge c’è la data! Ergo: la proroga deve essere fatta per legge; le procedure per il rinnovo manco si conoscono; intanto il canone sarà in bolletta e i soldi saranno destinati al fu concessionario.

Al canone mancherebbe una “n”, per poter sparare cannonate, ma c’è chi riesce ugualmente a usarlo per tuonare. Le annunciazioni furono quattro: 1. giugno 2014: il canone sarà dimezzato (Renzi), si troverà, già dal 2015, nella bolletta elettrica (Graziano Del Rio, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio), potrà essere pagato a consumo (de che? Antonello Giacomelli, sottosegretario al ministero dello sviluppo); 2. Ottobre 2014: andrà da 35 a 80 euro, a seconda del reddito familiare (Giacomelli); 3. Dicembre 2014: non lo aumenteremo (la sola annunciazione onorata, ma l’erario ha trattenuto per sé una parte dei quattrini riscossi); 4. Ottobre 2015: sarà nella bolletta elettrica e calerà di 13 euro. Si è passati dalla diminuzione del 50% a una del 70%, per assestarsi su un’ipotesi inferiore al 12%.

A parte lo sfregio fiscale, talché si vuole infilare in una tariffa la contabilizzazione di una tassa, estranea all’oggetto della bolletta, il solo modo per rendere praticabile la cosa consiste nel separare la tassa dal possesso del televisore, considerandola un contributo obbligatorio al finanziamento di una società per azioni, che agisce in un mercato aperto alla concorrenza, le cui azioni sono possedute dallo Stato. Bella roba. Ma non si può fare diversamente, se si vuol dare seguito all’ultima, elettrizzante novità. Non solo ci sono cittadini che pagano un canone e più bollette elettriche, ma ce ne sono che pagano un canone, essendo una sola famiglia, ma hanno bollette elettriche intestate a persone diverse (ad esempio per le seconde case). Oggi la legge esclude che debbano pagare due (tre, quattro …) volte, ma domani, per distinguere, si dovranno compilare moduli, provare a farsi ascoltare, incavolarsi per non esserci riusciti, ricorrere.

Il canone fu concepito quando la Rai aveva radio e un canale Tv. Ora sono un numero che neanche più conosco, seguendo una logica che con il servizio pubblico c’entra un bel nulla. Si potrebbe tenere un canale per il servizio pubblico (qualsiasi cosa significhi, anche nulla) e vendere il resto, prima che perda ulteriormente mercato e valore. E il canone si potrebbe abolirlo.

Davide Giacalone

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giacalone1 (2)[:en]

giacaloneRendere efficiente il processo civile, nonché riassorbire l’enorme arretrato, sono intenti tanto lodevoli quanto sentiti e risentiti. Disse già tutto Alessandro Manzoni, quando raccontò il susseguirsi delle gride contro i bravi: erano sempre più severe e tonitruanti sol perché le precedenti erano rimaste lettera morta. La stessa cosa può dirsi del continuo riformare, sempre con l’intento di semplificare, fare chiarezza, rendere tutto più celere. Poi si constata che l’irrefrenabile produzione legislativa rende tutto più caotico e lento. Non si può dire, però, se l’ultima grida sia destinata a subire la sorte delle altre. Il sospetto c’è, ma anche la speranza che vada diversamente. Ripartiamo dal testo ieri approvato dalla Camera dei deputati, ora destinato all’esame del Senato.

Non si tratta di una riforma, ma di una legge delega. Vale a dire che il Parlamento, fissati alcuni paletti, delega il governo a fare la riforma. Oramai le leggi sono di tre tipi: a. quelle innescate da decreti legge, quindi governative; b. quelle che delegano il governo a riformare; c. quelle di iniziativa parlamentare (poche), che vengono sostituite da emendamenti governativi, su cui lo stesso pone anche la fiducia. Il Parlamento che conoscemmo e studiammo già non c’è più.

Veniamo al processo civile. Tema troppo ampio, sicché mi concentro su alcuni punti. 1. Per alleggerire il più possibile i processi si punta ancor di più sulla conciliazione. Un accordo, da farsi prima di comparire davanti al giudice. In teoria una giusta cosa, in pratica meno. Intanto perché gli organismi di conciliazioni nascono su iniziativa privata (fosse anche l’ordine degli avvocati) e sono scelti dalla parte che chiama in giudizio. Siccome non sono stati un successone, facendo perdere ulteriormente tempo, ora si vorrebbe introdurre l’obbligo di motivare il diniego con un giustificato motivo, pena la maggiore severità del giudice. Ma se (caso reale) mi citano in giudizio perché sostengono che, scrivendo, ho arrecato danno ad altri, mai nominati e manco conosciuti, che vado a conciliare? Si può trattare su una causa di condominio, su beni contesi ma, nella gran parte dei casi, chi arriva in giudizio ha già una mediazione fallita alle spalle. Inoltre gli avvocati delle parti non hanno gran voglia di conciliare, anche se a officiare il rito è un loro collega.

2. Sempre per alleggerire i processi si aggrava la punizione per chi muove una “lite temeraria”, ovvero chi fa perdere tempo a tutti. Qui siamo in piena sindrome manzoniana: serve a poco far bau-bau con le punizioni, se poi, nella realtà, la lite temeraria non è quasi mai contestata. Basterebbe applicare la legge che c’è, evitando di far credere che sarà efficace solo con quella che verrà.

3. Con riferimento alla Cassazione (ma non solo) lo stesso presidente della commissione giustizia della Camera (Donatella Ferrante, Pd) continua a far riferimento all’“autoriforma”. No, le riforme le fa (dovrebbe fare) il Parlamento, mentre la Costituzione (articolo 110) assegna al ministro della Giustizia “l’organizzazione e il funzionamento”.

4. Si premieranno i tribunali più efficienti, capaci di smaltire prima l’arretrato. Giusto, ma è la classica norma manifesto. Il succo è: come e in che proporzione. E andrebbero compresi fra i premiati anche quelli che bravi lo sono di già, avendo accumulato meno arretrato. Altrimenti diventa un vantaggio essere i peggiori.

5. Bello il tribunale della famiglia e quello delle imprese (che c’è di già). Ma quanto è innovazione nel nome e quanto nella sostanza? Al momento si vede solo una ridenominazione e riorganizzazione dell’esistente. Può darsi porti bene, ma, al contrario del celebre confetto, non basta la parola.

6. Per far decollare il processo telematico si vuole, ora, un testo unico. Il che equivale a confessare che, al momento, prevalgono i testi sovrapposti e caotici. Tutto sta a vedere se il nuovo testo aumenterà il caos o lo sconfiggerà.

A me piacerebbe credere che la grida all’ultimo grido realizzerà gli obiettivi che si prefigge. Mi accontenterei della metà. Ma quello approvato ieri è un ulteriore strillo, che prelude a testi di là da venire, senza garanzia che abbiano sorte diversa da quelli passati. Visto che si inaugura, per la centesima volta, la Salerno-Reggio Calabria, senza che sia completata, credo sia utile attendere di farla da casello a casello, prima di festeggiare o disperarsi.

Pubblicato da Libero

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