lorenzoLa riscossione del Canone Rai 2016 è un grande pasticcio giuridico e burocratico, la testimonianza di uno Stato pervasivo, teso ad ostacolare la vita dei cittadini.

Infatti, le modalità di pagamento disciplinate dalla nuova norma continuano a destare perplessità e preoccupazioni nella gran parte dei consumatori italiani. La prima problematica è quella inerente i termini previsti per presentare l’autocertificazione nei casi in cui non si debba pagare questa imposta. Infatti, i tempi sono assai ristretti: entro il 30 aprile occorre inviare l’autocertificazione tramite raccomandata all’Agenzia delle Entrate, al fine di evitare di vedersi recapitare la prima rata del canone con la bolletta della luce di luglio. Invece, se si sceglie la procedura telematica, il termine ultimo è il 10 maggio. Le ultime voci prevedono uno spostamento di questi termini di 15-20 giorni in avanti nel tempo, ma poco cambia perché l’incertezza resta.

L’autocertificazione per il Canone Rai 2016 va inviata anche nei casi in cui chi, all’interno del nucleo familiare, finora ha pagato la tassa, sia persona diversa da quella a cui è intestata la bolletta della luce. Se ci si trova di fronte a questa situazione, l’autocertificazione funge da deterrente per evitare errori che potrebbero portare ad una duplice richiesta di pagamento. Va ricordato tra l’altro che l’autocertificazione è l’unica modalità prevista dalla legge per dichiarare di non possedere alcun apparecchio televisivo in casa. Dunque, la normativa non ammette altri tipi di ricorso. Ancora burocrazia, complicazioni e oneri sulle spalle del contribuente.

Come se non bastasse l’autocertificazione, a differenza di quanto accadeva in passato, ha un valore temporale limitato all’anno corrente. Questo vuol dire che il prossimo anno chi non è tenuto a pagare dovrà nuovamente inviare la medesima dichiarazione all’Agenzia delle Entrate. Insomma, il Canone Rai 2016, a distanza di diversi mesi dalla legge che ne ha modificato le modalità di riscossione, continua a far discutere e a destare perplessità non solo tra i singoli utenti, ma anche tra le principali associazioni di consumatori e anche tra le aziende elettriche che diverranno i materiali esecutori della riscossione di quest’imposta. Queste ultime, tra l’altro, riceveranno 28 milioni di euro per coprire i costi di riscossione nei prossimi due anni che saranno a carico della fiscalità generale. Cioè, ancora una volta, sulle spalle del cittadino tartassato.

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Per opportunità o necessità a seconda dei casi, il nostro paese ha sempre preferito non occuparsi della riforma universitaria. Ora però serve una riforma ‘disruptive’ che managerializzi l’università pubblica italiana

di Lorenzo Castellani

R600x__universita-nuSui ricercatori universitari siamo di fronte al solito piagnisteo ben articolato. Da un lato, la goffa glorificazione della “ricerca italiana” come metro di misura dell’orgoglio nazionale da parte del ministro Giannini. Dall’altro, gli alfieri della persino peggiore retorica sulla fuga dei cervelli all’estero quale sintomo della catastrofe nazionale. Questi si dividono a loro volta in due categorie. Quelli che “servono risorse dello stato” e si deve tutelare il sempreverde “diritto allo studio”. Sono costoro il sintomo dell’intimo rifiuto del mercato globale universitario, che è già una realtà diffusa da almeno vent’anni, e vorrebbero che lo stato costruisse un recinto intorno ai più brillanti studiosi italiani. E poi ci sono quelli che “chi va all’estero e non torna tradisce la patria”, perché se il tuo merito viene premiato altrove, magari con più soldi e prestigio, allora si consuma un vilipendio alla cultura italica, senza riflettere su come, invece, dovremmo imparare dagli altri paesi ad attrarre ricercatori e docenti stranieri.

Sulle cause delle fughe, dei successi e dei mancati ritorni c’è poco da girarci intorno: la riforma profonda e la modernizzazione del sistema universitario, l’internazionalizzazione, la liberalizzazione delle rette universitarie, i rapporti con il mondo dell’impresa, i finanziamenti dei privati e un sistema di borsa di studio e prestiti non sono mai stati una priorità di nessun governo. E nemmeno del governo Renzi, che ha preferito concentrarsi sulla stabilizzazione dei precari nella scuola primaria e secondaria, ritoccare la governance scolastica e trascurare quasi interamente l’ambito universitario e della Ricerca. Eppure, su quest’ultimo fronte ci sarebbe molto da fare: i nostri atenei, salvo pochi istituti privati, non rientrano mai nelle prime posizioni nelle classifiche sulla qualità dell’istruzione accademica, il tasso d’internazionalizzazione dei docenti universitari è ridicolo, gli investimenti in percentuale al pil sono tra i più bassi d’Europa. Aumentare di qualche miliardo la spesa per l’istruzione universitaria e la ricerca avrebbe senso se questa fosse scambiata con una riforma complessiva che introduca maggior concorrenza tra atenei, apra le porte alle partnership con i privati, incentivi gli istituti di credito a finanziare i prestiti d’onore, chiuda sedi, corsi e atenei con performance di scarso livello e sovrapposizione geografica, introduca standard e valutazioni della ricerca accademica e del servizio d’istruzione fornito dai docenti. Certo, si può sempre obiettare che non esistono criteri universali per valutare ricerche e atenei sia dal punto di vista qualitativo sia da quello quantitativo, ed è qui che s’inserisce la decisione politica: va scelto un metodo di valutazione e a questo l’accademia deve adeguarsi come in ogni altro paese sviluppato. I criteri si possono discutere, sentire tutti gli utenti, ma poi vanno fissati standards sulla base delle migliori università del paese al quale gli altri atenei siano costretti ad adeguarsi, pena la riduzione dei fondi e l’accorpamento con altre realtà.

Senza una riforma ‘disruptive’ che managerializzi l’università pubblica italiana non solo la fuga dei ricercatori sarà inevitabile, ma anche il semplice master all’estero restano un’ordinaria necessità e opportunità. Questo perché le ricerche non hanno patria e senza tanti drammi  – e senza tradire nessuno – chi può cerca di realizzare al meglio la propria professione all’estero perché il mondo è veloce e globale. Dal 1968, e ancor più dopo la fine della spesa pubblica incontrollata, la politica italiana, spalleggiata da gran parte del mondo accademico e culturale, ha fatto una scelta politica precisa: fregarsene della ricerca scientifica di qualsiasi tipo essa sia. Lo ha fatto, per giunta, senza rompere la posizione dominante del ‘pubblico’ nell’offerta universitaria. L’Italia, per opportunità o necessità a seconda dei casi, ha preferito non occuparsi della riforma universitaria oppure indirizzare la propria politica economica per pagare le baby pensioni, assumere precari della Pubblica amministrazione, promettere il ponte sullo Stretto di Messina, distribuire buoni da 500 euro a docenti e neo-diciottenni. Questi sono i fatti a cui la popolazione dei ricercatori si adegua. Tutto il resto è retorica falsa e rivendicazione ipocrita di risultati italiani.

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