Tratto da La Stampa, 17 maggio 2016 – In questi ultimi anni è stato fatto molto per favorire l’imprenditoria, in particolare per stimolare la costituzione delle così dette start-up innovative. Le start-up sono fondamentali per quei Paesi come l’ Italia che vogliono continuare ad immettere sul mercato prodotti e servizi originali, che vogliono fare innovazione, che vogliono rivoluzionare i propri modelli produttivi e organizzativi. Per fiorire, le start-up hanno bisogno di semplificazione burocratica e giuridica ed incentivi fiscali.

Su questo gli ultimi governi hanno lavorato molto. Serve però anche un sistema finanziario ispirato da una visione ambiziosa del mondo e pronto a prendersi dei rischi, anche sulle idee apparentemente più folli. Numeri alla mano, gli investitori italiani sono ancora molto timidi verso le imprese giovani e innovative. Ma soprattutto hanno bisogno di un ecosistema fertile che attiri una pluralità di individui curiosi e creativi, che stimoli il confronto culturale e che favorisca la convivenza. Su questo versante siamo messi molto male. La start-up è sinonimo di fallimento, perché la maggior parte delle idee imprenditoriali come le ipotesi scientifiche sono destinate a fallire. Come in natura, il mercato seleziona le idee migliori – in un preciso momento storico – mentre scarta tutte le altre. Come per la scienza, il fallimento è insito nell’idea stessa di impresa o di prodotto.

Un ambiente sociale vibrante non solo accetta chi ha fallito, ma lo valorizza. Dal fallimento si trarrà l’esperienza e quindi le conoscenze per perseguire una strada nuova. Purtroppo il fallimento è socialmente rifiutato anche nella scuola. È paradossale, decantiamo i fallimenti scolastici di scienziati e visionari che hanno cambiato il nostro modo di vivere con innovazioni straordinarie, mentre dissuadiamo i nostri giovani dall’intraprendere iniziative che potrebbero fallire. Le ragioni per cui fatichiamo ad accettare il fallimento e lo puniamo sono molteplici.

Le radici sono talmente profonde che la stessa accezione linguistica del termine è negativa. Cresciamo con la paura di fallire. Secondo il Rapporto Globale sull’Imprenditorialità 2015 il 90% degli italiani considera la paura di fallire il vero freno all’ imprenditorialità, è la percentuale più alta in Europa e la seconda al mondo. La didattica odierna non promuove la libera iniziativa perché essa può condurre al fallimento. Il sistema di valutazione è progettato per scoraggiare il fallimento. Esso viene associato alla pigrizia o alla malafede mentre dovrebbe essere collegato alla curiosità e alla creatività. Va quindi premiato chi prova ed eventualmente fallisce. Si tende invece a gratificare chi recepisce il sapere trasferito dagli insegnanti ed esegue le loro istruzioni. Come possiamo bocciare un bambino perché ha fallito nel risolvere un problema?

La scuola è ancora costruita attorno al sapere mnemonico che per sua natura è legato alla volontà e alla capacità del discente di assorbire o meno le nozioni. Da qui il fallimento come negligenza da punire. Ma anche dove c’è una didattica orientata alla soluzione di problemi si tende ad imporre risposte impostate preventivamente. Si può scegliere di assemblare una costruzione seguendo le istruzioni oppure no, stimolando quindi maggiore creatività ma anche il rischio di sbagliare. Si stimolano così lo spirito critico e una prospettiva nuova su ciò che ci circonda. Negli Stati Uniti, che sono certamente più inclini di noi ad accettare l’ insuccesso, si discute da molto tempo sui modelli scolastici e i criteri di valutazione che più favoriscono l’ errore. Qui come nei Paesi del Nord Europa si sperimenta. Perché non sperimentiamo anche noi? La risposta è semplice. La sperimentazione di per sé produce fallimenti, e noi abbiamo paura.

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