Perché il rating fa più paura dello spread

Perché il rating fa più paura dello spread

Purtroppo la peggiore delle mie previsioni si è avverata. Oramai siamo giunti sull’orlo del baratro, oltre cui non possiamo andare, se vogliamo evitare il commissariamento tipo Grecia della nostra economia e della nostra finanza da parte di Bruxelles.

In assenza di indicazioni sul vero programma di governo che interessa ai mercati, quello relativo al Def, il Documento di Economia e Finanza, in cui si indica per il prossimo triennio l’entità del deficit e quella del debito pubblico in rapporto al Pil, lo spread ossia il differenziale rispetto a titoli pubblici meglio quotati (i Bund tedeschi, di fatto) ha varcato la soglia dei 200 punti e si sta avvicinando pericolosamente ai quella di 250, oltre cui sui mercati si scatena la parola «sell», ossia «vendere».

In previsione di ciò, e in qualche modo contribuendo al verificarsi di tale previsione, l’agenzia di rating Moody’s si avvia a declassare il nostro debito a una categoria che rende legalmente impossibile per la Bce, la Banca Centrale Europea, di continuare a comperare sul mercato secondario quote di debito pubblico italiano, sulla base del suo vigente programma di facilitazione quantitativa (Qe: Quantitative Easing).

Uno scenario pauroso, perché questo ossigeno sino ad ora ha consentito al nostro nuovo debito pubblico, derivante da nuovi debiti o dal rinnovo di titoli vecchi venuti a scadenza, di esse collocato sul mercato primario a tassi di interesse bassi per poi transitare nel mercato secondario, quello dei titoli già in precedenza emessi, riempendo lo spazio lasciato libero dai titoli comprati dalla Bce mediante la politica di Qe. Ora questo ossigeno verrebbe meno, proprio mentre lo spread sale.

L’aumento del tasso farebbe saltare i conti del bilancio statale, già appesantito dall’onere del pagamento degli interessi passivi su un debito che arriva al 132% del Pil. Un livello altissimo, a cui è stato portato dai governi che dal novembre del 2011 sono succeduti a quello di Berlusconi, tolto di mezzo da una tempesta finanziaria, con molti aspetti simili a quella che si profila ora, ma che si basava su un debito del governo ritenuto eccessivo perché giunto al 118% sul Pil.

Nonostante i benefici della politica della Bce, operativi dal 2012, i governi a guida Pd che si sono succeduti dalla fine del 2011 sono riusciti a far lievitare il nostro debito di ben 14 punti in 6 anni.

È evidente che questa volta la tempesta finanziaria sul debito italiano non porterebbe alla mera nomina di un governo tecnico inventato dal Presidente della Repubblica per sanare la situazione, come quello di Monti che la peggiorò grazie anche alla pesante tassazione patrimoniale immobiliare, che diede luogo a un mix di crisi edilizia e di crisi bancaria.

Questa volta, essendo il debito a quota 132, la prospettiva è quella dell’insolvenza e del commissariamento mediante il Fondo salva stati, come è accaduto alla Grecia, con conseguenze negative gravissime per noi, ma gravi per tutta l’Eurozona e tutta l’Europa. Le caselle dei vari ministeri, le liti sui programmi, le discussioni sulla riforma dell’euro o la fuoriuscita da esso, avvicinano alla esplosione della spirale pericolosa. La ricreazione è finita: urge un Def atto a far rientrare la tempesta.

Francesco Forte, Il Giornale 27 maggio 2018

 

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