Meglio l’odiato voucher che il lavoro in nero

Meglio l’odiato voucher che il lavoro in nero

L’Italia ristagna, le banche devono essere salvate con soldi pubblici, nessuno dei nodi che ci attanagliano — scarsa qualità dell’istruzione, bassa competitività, inefficienza della Pubblica amministrazione, debito pubblico — viene sciolto, eppure sembra che il problema principale del Belpaese siano diventati i voucher.

In effetti, la Cgil ha raccolto le firme per tenere un referendum abrogativo dell’istituto (il quesito è al vaglio della Corte Costituzionale) e il governo, impaurito, ha allo studio modifiche “restrittive”.

Come funzionano i buoni? Le norme sul lavoro accessorio sono miracolosamente semplici per un ordinamento giuridico votato alla complicazione come il nostro. I soggetti che possono usufruire dei buoni-lavoro sono pensionati, disoccupati, lavoratori part-time, studenti nei periodi di vacanza, percettori di prestazioni integrative del salario (ad esempio cassintegrati o titolari di indennità Aspi).

Ogni voucher ha il valore di 10 euro lordi di cui 7,5 netti (il compenso minimo orario) per il lavoratore e altri 2,5 per i contributi Inps e Inail. Le prestazioni sono solo a favore direttamente del committente e quindi non si può adoperare questa forma di lavoro ad esempio negli appalti. Inoltre, salvo alcune regole ad hoc nel settore agricolo e per i cassintegrati, nessun individuo può superare il tetto di 2.000 euro netti annui per datore di lavoro (per evitare che il voucher rimpiazzi ingiustificatamente il lavoro dipendente) e i 7.000 euro complessivi. Infine, il committente ha l’obbligo di comunicare l’inizio della prestazione all’Inps (la famosa “tracciabilità”) e il non superamento del tetto di ore da parte del prestatore a pena di sanzioni abbastanza severe.

In Germania, i mini- job, che coinvolgono 7 milioni di persone e che servono a integrare quel che si riceve anche in termini di assistenza sociale, non funzionano in modo poi tanto diverso.

Eppure, agitando lo spettro del “precariato” e della “sostituzione surrettizia” del “buon” lavoro dipendente con i voucher, la Cgil, indispettita dalla perdita di potere di interdizione causata dai buoni- lavoro, ne reclama l’abolizione e molti politici e commentatori parlano di “abusi”.

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Vediamo di capirci qualcosa. Prima domanda: il sistema del voucher è in astratto utile? Assolutamente sì, perché permette agli imprenditori di saltare pleonastici intoppi burocratici per assumere persone utili in situazioni temporanee, che si tratti di coloro i quali fanno i pacchetti a Natale o curano le spiagge nel mese di agosto. E, ricordiamocelo, se gli imprenditori possono operare al massimo della capacità produttiva, generano più ricchezza, creano opportunità, pagano più tasse a beneficio dell’erario.

Il voucher, per la sua semplicità e bassa imposizione contributiva, consente di ridurre il lavoro nero, nel contempo permettendo ai pensionati di arrotondare la pensione e continuare a sentirsi attivi e ai giovani di fare prime esperienze, formarsi un curriculum che altrimenti rimarrebbe vuoto, costruire una posizione previdenziale e ovviamente raggranellare qualche soldo. Per percettori di misure integrative del reddito e lavoratori part-time i vantaggi sono auto-evidenti. Come sempre, più libertà di scelta porta maggiore efficienza e soddisfazione.

D’altronde, quello che viene visto come un atto di accusa, ossia l’incremento esponenziale dell’utilizzo dei buoni, saliti a 121 milioni a fine ottobre di quest’anno contro gli 88 milioni dell’intero 2015, in realtà è un indice di successo dello strumento.

L’accusa di aumento del “precariato” è senza senso. In primis perché se l’alternativa è l’inattività o il lavoro nero è evidente che il voucher è un’opzione migliore. In secondo luogo perché anche gli strali sulla presunta sostituzione del lavoro dipendente con il buono sono insensati. Innanzi tutto da un punto di vista teorico: con un tetto massimo di 2.000 euro netti per datore di lavoro è facile capire che non si stipendierebbe nemmeno il periodo di prova di tre mesi di un dipendente.

Ma anche da un punto di vista empirico l’antifona non cambia: negli ultimi due anni i lavoratori dipendenti sia a tempo determinato che indeterminato sono aumentati, sono diminuiti i co.co.co e cresciuti gli apprendisti. La media annua di coloro che sono pagati col voucher nel 2015 corrispondeva all’1,3% degli occupati italiani. Anche se nel 2016 arrivassimo all’1,6-1,7%, non sembra un fenomeno di proporzioni drammatiche.

Gli utilizzatori ne adoperano in media 60-70 l’anno e solo il 2,2% (dati 2015) ha riscosso più di 300 voucher (pari a meno di 40 giornate lavorative): quale posto fisso si andrebbe a rimpiazzare? Inoltre, il 77% degli utilizzatori sono studenti, pensionati, percettori di ammortizzatori sociali, lavoratori part-time o autonomi (quindi incompatibili con un lavoro dipendente) e solo il 10% del totale risulta avere avuto un rapporto di lavoro con lo stesso datore nei sei mesi precedenti: ancora una volta, dove si annida la temuta “sostituzione surrettizia”?

Si dice: «In alcuni casi pagano 5 voucher e ti fanno lavorare 10 ore». Si tratta di un abuso che potrebbe essere anche assoluto (tutto lavoro nero) o esercitato per altre forme di lavoro (risulti part-time ma in effetti lavori di più, oppure non vengono pagati gli straordinari); gli illeciti non sono certo una creazione dei buoni che, anzi, riducono l’area di illegalità.

Insomma, nella continua ricerca di qualche totem dello sfruttamento capitalistico (o della casta, dal punto di vista dei grillini), anche questa volta si è preso di mira uno strumento vantaggioso per lavoratori e imprenditori; ma si sa che per i puri fiat iustitia, pereat mundus (sia fatta giustizia, perisca pure il mondo), purché sia il mondo degli altri.

Alessandro De Nicola, La Repubblica 29 dicembre 2016

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