Fisco italiano paradossale: guadagnare di più non conviene

Fisco italiano paradossale: guadagnare di più non conviene

Il sistema fiscale italiano è meno equo di quanto si creda comunemente. Di fatto non è trasparente né sempre progressivo, cioè risponde in maniera ballerina al principio costituzionale in base al quale chi guadagna di più deve pagare di più in termini percentuali.

Per chi guadagna sotto i 28 mila euro lordi accettare un aumento di stipendio, una collaborazione o uno straordinario è come giocare alla roulette russa: potrebbe essere azzerato per le tasse. Sopra i 28 mila euro la progressività non esiste più e i redditi più alti fino a 100-200 mila euro sono liberi di crescere senza il rischio di essere “mangiati” dal fisco.

Questo più o meno il verdetto che giunge dall’Ufficio di valutazione dell’impatto, centro di analisi del Senato, che esordisce con uno studio, guidato da Fernando Di Nicola e Melisso Boschi, dal titolo inequivocabile: “La giungla delle aliquote marginali effettive”. Ancora più esplicito è sottotitolo: “Al contribuente conviene sempre lavorare di più?”.

Le aliquote Irpef

Per capire perché il nostro fisco è poco progressivo e neppure ce ne accorgiamo bisogna fare riferimento alla gabbia delle aliquote ufficiali Irpef. Come molti sanno partono dal 23 per cento per chi guadagna fino a 15 mila euro lordi, passano al 27 per cento fino a 28 mila euro e via via raggiungono il 43 per cento per chi guadagna oltre i 75 mila euro.

La maggior parte di noi ragiona sulla base di queste aliquote e sa bene quando, per un motivo o per l’altro, è sottoposto ad un “salto” di aliquota. Questo sistema di aliquote ufficiali – “curva” la chiamano gli economisti – è progressivo: ogni parte di reddito in più viene gravata da una aliquota più alta.

Einaudi, che diceva che 10 lire hanno un valore diverso per chi ci compra la minestra e chi una poltrona a teatro, sarebbe soddisfatto.

Ma questa è la percezione apparente delle cose. Per capire se il principio di progressività è rispettato in Italia bisogna considerare non solo le aliquote ufficiali, ma anche le detrazioni per reddito e carichi familiari, le deduzioni, le addizionali locali, il bonus 80 euro, gli assegni familiari, le zone di incapienza.

Ebbene questo è il mondo che viene chiamato delle “aliquote implicite” cioè che sfuggono normalmente alla percezione del contribuente e che non sono indicate in un testo di legge ma emergono dalle varie situazioni familiari e condizioni personali.

Se si sommano le aliquote nominali (quelle ufficiali che vanno dal 23 al 43 per cento) con le aliquote “implicite” (quelle prodotte dal gioco delle deduzioni e quant’altro) emergono le cosiddette “aliquote marginali effettive” oggetto dello studio della commissione creata da Pietro Grasso.

L’andamento delle aliquote marginali effettive, cioè quello che si paga realmente al fisco, è sorprendente: invece delle cinque aliquote cui siamo abituati nel “mondo reale” ce ne sono solo tre. Lo studio le elenca: la prima pari a zero, cioè la fascia esente fino a circa 10 mila euro; la seconda del 30 per cento fino a 28 mila euro e sopra i 28 mila euro intorno al 42 per cento.

L’effetto di questo sistema che somiglia alla flat tax, cioè la tassa ad aliquota proporzionale proposta in queste settimane, è una marcata diseguaglianza. Perché sotto i 28 mila euro l’aliquota del 30 per cento è costellata di salti e scalini ad ogni aumento di reddito, mentre sopra i 28 mila euro ogni aumento di stipendio viene sottoposto alla stessa aliquota.

Alcuni esempi

Lo studio contiene alcuni esempi.
Il primo riguarda le addizionali Irpef locali che non si pagano se si è sotto la soglia di esenzione tra i 9.000 ed i 15.000 euro: in questo caso basta un solo euro in più, spiega il rapporto, che il contribuente debba versare l’addizionale su tutto il suo reddito e non solo sull’incremento come prevederebbe la logica fiscale.

L’altro paradosso avviene con il bonus di 80 euro, che si esaurisce a 26 mila euro di reddito lordo: chi si trova a 24 mila e ottiene una entrata aggiuntiva di 2.000 euro, perde il bonus e paga l’aliquota sull’aumento.

Il calcolo è che si arriva ad una aliquota marginale specifica del 48 per cento. Si può arrivare complessivamente ad una aliquota del 100 per cento sull’incremento, che viene in questo modo annullato.

Terzo momento critico, intorno ai 15 mila euro quando si entra nel secondo scaglione Irpef del 27 per cento: qui cominciano a diminuire gli assegni familiari generando una aliquota marginale effettiva anche del 10 per cento. Per ogni 100 euro di aumento di reddito, 10 se ne possono andare per la sola perdita degli assegni familiari.

Forse per evitare paradossi ed errori sarebbe opportuno un intervento di riordino. [spacer height=”20px”]

Roberto Petrini, La Repubblica 8 agosto 2017

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