Barriere, commerci e gli orfani del libero scambio

Barriere, commerci e gli orfani del libero scambio

Mettendo da parte le sincere preoccupazioni dei meglio informati e i loro sforzi di valutare con obiettività la situazione in atto, si può constatare la presenza di due pecche in molte reazioni europee ai battaglieri propositi protezionisti di Donald Trump: da un lato, dosi massicce di ipocrisia e, dall’altro, una minimizzazione eccessiva del peso e delle conseguenze delle annunciate scelte di Trump.

Cominciamo dall’ipocrisia. A sentire certe dichiarazioni sembra che gli europei, a schiacciante maggioranza, siano campioni del libero mercato e del libero scambio, dolorosamente colpiti dal voltafaccia di Trump, dal tradimento dei comuni ideali. Come avrebbe detto Totò: ma mi faccia il piacere.

Una comoda finta amnesia permette a tanti di glissare sul fatto che non secoli fa ma solo un paio di anni fa — cominciando dai colossi Germania e Francia — l’Europa si era di fatto schierata, per bocca di alcuni dei suoi principali esponenti politici, contro il Trattato di libero scambio America – Europa (Ttip) proposto dall’amministrazione Obama: un trattato che, se fosse stato approvato, superando i molti contenziosi rimasti in piedi, avrebbe fatto di quella occidentale la più vasta area mondiale di libero commercio.

Il vade retro europeo fu così intenso e generalizzato che, a un certo punto, il nostro ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda sembrò, qui in Europa, l’ultimo giapponese, l’ultimo europeo (o uno dei pochi) con responsabilità politica impegnato ancora a difendere il Ttip.

Cosa sarebbe accaduto in Italia, ad esempio, se quella negoziazione fosse andata avanti? Non è difficile immaginare di quale tenore sarebbero state le dichiarazioni di tanti politici di opposizione (ma alcuni anche di governo) o quanto intensa sarebbe stata, ad esempio, la mobilitazione dell’indignazione popolare da parte della Cgil (altro che voucher).

Se fosse poi stato possibile tenere un referendum (aggirando il divieto costituzionale) sul trattato, quel referendum avrebbe probabilmente avuto gli stessi esiti di quello sulla riforma costituzionale: sessanta per cento contro, quaranta a favore.

Il libero mercato è apprezzato in Europa (continentale) dagli operatori economici – ma solo quelli, ovviamente, che dispongono di capacità competitiva – ma, per il resto, può contare sul sostegno pieno solo di sparute minoranze liberali. La maggioranza gode dei benefici del libero scambio ma senza saperlo, senza sapere che passando a un regime di protezionismo quei benefici scomparirebbero.

Il libero scambio è forte dal punto di vista economico (degli interessi economici in gioco) ma è debole dal punto di vista culturale, degli orientamenti di valore diffusi. Alla ipocrisia di molti si somma (ecco il secondo difetto) una certa sottovalutazione da parte di altri delle mosse di Trump.

Il ragionamento è il seguente: l’interdipendenza America – Europa è troppo forte, Trump fa la voce grossa per soddisfare il suo elettorato ma poi, al dunque, dovrà accontentarsi di qualche misura di valore più simbolico che pratico, non potrà sfasciare tutto, non potrà innescare una guerra commerciale con l’Europa. In fondo, sta solo drammatizzando contenziosi che esistono da tempo, sia con noi che con la Cina.

Come si è visto anche nella riunione del B7 (la riunione svoltasi a Roma fra le associazioni imprenditoriali dei Paesi del G7), gli industriali americani sono, al pari dei nostri, contrari alla drammatizzazione voluta da Trump dei contenziosi commerciali e non mancheranno di premere in tal senso sull’Amministrazione.

Una certa dose di bluff è certamente presente nelle mosse di Trump. Ma c’è un aspetto che non si può ignorare. L’amministrazione Obama aveva stipulato una sorta di compromesso fra la presa d’atto del declino della potenza americana (con le sue inevitabili spinte isolazioniste) e la necessità di preservare comunque, per ciò che restava, una certa coesione di quel mondo occidentale che, dal 1945, è a guida americana (vedi la proposta del Ttip).

Un compromesso, va detto, che qualche volta ha funzionato e altre volte no: per esempio, non ha funzionato affatto in Medio Oriente. In ogni caso, un compromesso c’era. Con Trump si cambia. I presidenti americani dopo il 1945, sia democratici che repubblicani, erano anche i capi dell’Occidente. Trump porta a compimento il ritiro parzialmente iniziato da Obama. Trump — lo ha ribadito sempre — è il capo dell’America e dell’Occidente non gli importa un accidente.

Può benissimo prendere di petto l’Europa per la ragione che l’Europa non è più per lui un alleato strategico ma solo un insieme di rissosi e fastidiosi competitori. Poi, certo, anche lui dovrà fare un bagno di realismo ma il significato politico di quanto sta facendo non dovrebbe sfuggire a nessuno. Qualcuno spera nell’impeachment.

Sarebbe bello tornare a recitare la vecchia commedia: con l’America che sventola la bandiera del libero scambio e del libero mercato e tanti europei di nuovo liberi (si perdoni il bisticcio) di contestare il «liberismo selvaggio» americano. [spacer height=”20px”]

Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 2 aprile 2017

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