Governo, la paralisi dei partiti

Governo, la paralisi dei partiti

Si parla della base di tutti i partiti in rivolta, dei nervi di elettorati frastornati e sgomenti, che cedono di schianto e si sfogano nella collera e nel dramma. Del popolo del Pd che soffre per la ventilata alleanza con i 5 Stelle, quello del 5 Stelle che rumoreggia per la sola ipotesi d’accordo con il Pd, e quell’altra parte dello stesso popolo infuriato per l’asse con la Lega, e il popolo della Lega disgustato dalla prospettiva di un governo con i 5 Stelle, e quello di Forza Italia in ebollizione indignata con tutti, persino con il suo leader che ha perso lo scettro e il tocco magico. Un vortice psicodrammatico che coinvolge e travolge tutti i partiti e le coalizioni, a destra a sinistra e al centro: noi a braccetto con quelli, l’odio che deve trasformarsi in collaborazione, l’insulto in attestati di stima, la guerra in idillio? Ma si capisce: l’Italia sta conoscendo un assoluto inedito della sua storia politica, qualcosa di mai visto e mai vissuto che genera inevitabilmente ansia, disorientamento, paura dell’ignoto. Mai in Italia per fare un governo si è profilata l’ipotesi di un governo formato da forze antagoniste. Mai si è giocata in tre una partita che abitualmente viene giocata in due.

Se i partiti stanno alla paralisi non è solo perché siano inetti. È soprattutto che quando ci sono tre poli e nessuno ha i numeri sufficienti per governare da solo non ci sono alternative: o almeno due dei tre si mettono d’accordo per formare un governo oppure non si formerà alcun governo. Questo è il dilemma del tutto inedito nella storia dell’Italia repubblicana. Colpa della legge elettorale? Certo, però gli esperti dicono che con questa tripartizione non avremmo maggioranza con nessuna legge elettorale. Ma si dice: niente di inedito, invece, anche nella Prima Repubblica si formavano governi di coalizione. Paragone molto debole: in passato i partiti che collaboravano (quattro o cinque, ma sempre attorno al perno della Dc) non erano antagonisti tra loro, come accade adesso, non si facevano una guerra spietata con contorno di insulti, come accade adesso, non appartenevano a mondi contrapposti e ostili, come accade adesso. Non è mai accaduto, per fare qualche esempio, che i repubblicani marcassero la loro irriducibile e veemente diversità con i socialdemocratici, o i liberali che considerassero un pericolo per la democrazia la Dc, per poi collaborare con lo Scudo Crociato come se nulla fosse. Ci si alleava tra simili, o almeno tra compatibili. E l’elettorato lo sapeva, e non si sapeva tradito quando il Parlamento era insediato. L’identità stessa dei singoli partiti non veniva messa in discussione nelle alleanze tra diversi che non vivevano in un clima di inimicizia assoluta. E quando si prefiguravano grandi cambiamenti, i processi politici duravano anni prima di maturare, come accadde con il passaggio dal centrismo al centrosinistra, oppure negli anni turbolenti dell’unità nazionale e delle ipotesi di «compromesso storico».

Oggi è tutto diverso, perché se almeno due su tre devono mettersi d’accordo tra di loro, bisognerà per forza rinfoderare le armi che sono state sguainate nel corso degli anni: qualunque governo si faccia, ammesso che se ne faccia uno, la premessa non può che essere il sacrificio delle identità. Bisognerà dimenticare gli insulti, le reciproche derisioni dei programmi, seppellire le armi. Non c’è scampo: se si vuole un governo occorre prima di tutto governare la propria ira. L’alternativa c’è. Si chiama: nessun governo.

Del resto, la forza di una classe dirigente è anche quella di saper andare contro l’ira, legittima, rispettabile, giustificata, della sua base. De Gaulle non avrebbe chiuso la guerra d’Algeria senza urtare la suscettibilità del suo popolo, il vituperato Sharon sfidò le lacrime e il sangue di Israele smantellando gli insediamenti ebraici a Gaza, e tornando a casa nostra Berlinguer e Moro hanno affrontato per anni i malumori del popolo comunista e di quello democristiano in vista di uno scopo non realizzato ma tutt’altro che banale. Tutti avevano un obiettivo preciso, e il prezzo da pagare era commisurato alla convinzione di perseguirlo. Se si vuole perseguire l’obiettivo di formare un governo qualcuno, almeno due su tre, deve dimostrare di essere in grado di saper pagare quel prezzo. Oppure no. Ma allora niente governo. Tertium non datur.

Pierluigi Battista, “Il Corriere della Sera” 26 aprile 2018

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