Tutti preoccupati per le banche. E il fisco fa a pezzi le imprese

Tutti preoccupati per le banche. E il fisco fa a pezzi le imprese

Nel giorno in cui le banche italiane con l’ovvia e disastrosa eccezione del Monte dei Paschi riescono a superare quasi indenni la prova sotto sforzo dell’Eba, che ha monitorato una cinquantina di istituti creditizi europei, dalla Cgia di Mestre giunge l’ennesima conferma che il problema maggiore dell’economia nazionale è nel fisco.

E in particolare nel rapporto perverso tra la tassazione e il sistema produttivo. In un suo studio la Cgia evidenzia come la percentuale dei prelievi che gravano sui profitti di un’impresa italiana (sommando imposte in senso stretto e contributi previdenziali) sia giunta al livello del 64,8%. In un’Europa che pure è soffocata dalla tassazione, nessun altro Paese è a tali livelli: e così in Germania siamo al 48,8%, in Olanda al 41%, in Slovenia al 31% e in Irlanda al 25,9%. Per chi produce beni e servizi sul mercato, allora, la situazione è drammatica e la tentazione di mollare (chiudendo tutto o andandosene) è costante.

In fondo, la Cgia conferma quanto già si sapeva: e solo pochi mesi fa un altro istituto di ricerca (Impresa Lavoro) aveva a sua volta consegnato all’Italia la maglia nera in campo fiscale, al termine di un’analisi che aveva riguardato tutti i Paesi dell’Unione più la Svizzera. Quanti conoscono appena un po’ il mondo delle imprese non possono essere sorpresi, perché da tempo il primo fondamentale problema da risolvere è la riduzione di quel salasso che impedisce alle nostre aziende di competere con quelle di altre economie. Entro tale quadro preoccupa il fatto che il governo guidato da Matteo Renzi stia del tutto ignorando la drammaticità della questione, soprattutto perché è incapace di fare i conti con ciò che è all’origine di tutto ciò: e cioè con quella spesa pubblica fuori controllo che costringe, al tempo stesso, ad aumentare il debito (ormai a 2.250 miliardi di euro, come attesta in tempo reale il contatore del debito pubblico dell’Istituto Bruno Leoni) e a tartassare le aziende.

Il guaio è che siamo ormai entrati in una spirale perversa, poiché lo Stato ha sempre più bisogno di risorse e per questo motivo aumenta un prelievo che tarpa le ali di chi lavora, produce, crea ricchezza. Di questo passo, tra poco quel 64,8 per cento di prelievo finirà per colpire una base imponibile assai ristretta. È normale che un governo di sinistra non senta l’urgenza di lasciare la ricchezza nelle mani di chi la genera. La tradizione socialista guarda al profitto con sospetto, mentre ritiene cruciale che si realizzino politiche redistributrici, in grado di prendere da ciascuno secondo le sue possibilità e dare a ciascuno secondo i suoi bisogni.

È però giunto il momento, anche per chi sta a sinistra, di conoscere una fase di realismo, comprendendo che c’è comunque bisogno di un «gatto che prenda il topo»: per ricordare la formula usata da Deng, quando iniziò a inserire elementi di capitalismo nel sistema produttivo cinese. O abbassiamo le tasse, o sarà impossibile avere un futuro.

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