Luigi Einaudi e la ricchezza di una nazione

Luigi Einaudi e la ricchezza di una nazione

L’ex Presidente della repubblica in fondo condivideva l’analisi sul circolo vizioso per il quale il risparmio può non trasformarsi automaticamente in investimenti e per questa via compromettere la crescita economica

Avevo promesso che ci sarei tornato sopra. E così sarà. È il libretto edito da Le Monnier a cura della Fondazione Einaudi, e titolato semplicemente Luigi Einaudi, pubblicato a venti anni della sua morte nel 1981.

Questa settimana mi interessa segnalarvi la bella commemorazione a cura di Franco Romani, un altro grande liberale che proprio in questa rubrica celebrammo. Romani si chiede, non tanto retoricamente, per quale dannato motivo Einaudi economista sia stato tanto ignorato dalla sua accademia, quella degli anni 50. L’Italia era in pieno boom economico, Einaudi vivente, ma nelle università la parola spettava solo a Keynes. «Il dubbio che aveva Einaudi sulla soluzione di Keynes non è tuttavia scrive Romani sulla validità del ragionamento teorico, ma bensì sulla correttezza della diagnosi di fondo».

Il liberale pone la cornice, taccia i limiti dell’operare economico; il socialista indica od ordina la maniera dell’operare

L’ex presidente della repubblica in fondo condivideva l’analisi sul circolo vizioso per il quale il risparmio può non trasformarsi automaticamente in investimenti e per questa via compromettere la crescita economica. Ma il punto di Einaudi è che «non si può ritenere che alla lunga la ricchezza materiale e morale di una nazione possa risultare da un qualche espediente di politica economica o da qualche manovra di ingegneria finanziaria».

Ve la faccio semplice: non è con le «mancette» che si crea lavoro. Il Pil di un paese non potrà mai crescere solo grazie ad una legge finanziaria che cambi le poste di bilancio. Ci vuole, pensava Einaudi, ben altro: un paese crea ricchezza grazie alla qualità del suo lavoro, alla sua creatività, all’inventività, alla «capacità di sacrificarsi per le generazioni future». Figurarsi un po’: i governi in genere pensano, si veda il caso della previdenza, solo a quelle attuali.

Romani in una sorta di excusatio non petita ricorda come l’ex governatore della Banca d’Italia non si potrebbe definire, come oggi va di moda, un «ultraliberista». Ma ricorda come sia ben definibile rispetto ad un socialista: «L’uomo liberale vuole porre le norme, osservando quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possono liberamente operare; laddove l’uomo socialista vuole sovrattutto dare un indirizzo, una direttiva all’opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori e lavoratori anzidetti. Il liberale pone la cornice, taccia i limiti dell’operare economico; il socialista indica od ordina la maniera dell’operare».

Favolosa predica inutile che Romani fa bene a ricordare. [spacer height=”20px”]

Nicola Porro, Il Giornale 18 dicembre 2016

 

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