L’ipocrisia del lavoro socialmente utile per gli immigrati

L’ipocrisia del lavoro socialmente utile per gli immigrati

Nulla rende meglio l’impressione del vuoto, quanto l’idea di far fare agli immigrati lavori socialmente utili. Mario Morcone, che l’ha esposta, è capo del dipartimento che si occupa d’immigrati, presso il ministero degli Interni. E se queste sono le cose che stanno in capo, figurarsi cosa accade in coda. Una specie di grande Capalbio-Italia, in cui si discute animatamente e dissennatamente su dove mettere 50 immigrati, non accorgendosi che tutto intorno ce ne sono tanti altri, piegati a raccogliere pomodori. Che non esistono per la sola ragione di non essere arrivati fin sotto l’ombrellone ove la giornata comincia fingendo di leggere tomi pensosi e finisce subito in: «Signora mia, in che mondo viviamo».

Ma io, dice Morcone, mi sforzo di pensare a cosa far fare loro, voi che proponete? Eccoci: i lavori socialmente utili sono stati inutile spesa corrente e presa in giro quando diretti agli italiani, non si vede perché dovrebbero funzionare con chi arriva da fuori. I profughi, che se riconosciuti tali hanno diritto a essere accolti, devono essere avviati verso collocazioni stabili, apprendimento della lingua e del rapporto diritti/doveri. In un primo tempo li si aiuta, poi tocca a loro, come a ciascuno di noi. Gli immigrati economici il lavoro dovrebbero avercelo di già, altrimenti non dovrebbero trovarsi qui. Il modello italiano, d’integrazione mediante il lavoro, funziona bene, meglio di altri, in Europa. Peccato sia misconosciuto dai connazionali che, in effetti, con il lavoro hanno un rapporto non assiduo. Quelli cui pensa Morcone sono una terza categoria: coloro che attendono di sapere se possono o no restare. Loro hanno un diritto e noi abbiamo un dovere: la risposta arrivi in fretta. Senza la finzione del lavoretto. Anche perché appena dovessero iniziare scatterebbero i problemi: che succede se si fanno male? Perché lavorano senza tutele? La loro bassa remunerazione toglie occasioni ad altri? Non solo non se ne esce, ma ci si mette nei guai.

Contrariamente a quel che vuole la vulgata corrente, secondo cui il buonismo accogliente sarebbe di sinistra e il cattivismo respingente di destra, un sano destro mercatista non può che essere favorevole all’importazione di lavoratori utili alla produzione, meglio se di alto profilo professionale, mentre un sindacalista rosso lo vivrà come milite di quell’«esercito di riserva» (i disoccupati) che Marx già vide come strumento nelle mani di quanti intendono negare i diritti dei lavoratori. Da noi la faccenda s’è confusa e imbastardita perché ci si rassegna a vedere in Italia gente che non lavora e manco ha il permesso di restarci. A quel punto tutto si riduce ad anema e core, naturalmente in conto ad altri. Nel caso in cui l’apposita commissione neghi a chi chiede di entrare il diritto a restare (quindi è già entrato) è consentito rivolgersi al giudice. Perché? Capita perché il diritto europeo non s’è dotato dello strumento adatto: zone extraterritoriali, ove non si applichi il diritto nazionale.

Il governo ora vuole che sia negato, al ricorrente, il secondo grado di giudizio. In questo modo, però, si chiama una reprimenda della Corte costituzionale e non si risolve nulla: chi vuole dileguarsi lo farà prima del giudizio, nelle more del ricorso, mentre chi non si dilegua teme il diniego non se gli consegnano un provvedimento d’espulsione, ma se lo accompagnano alla frontiera. Se di quest’ultima cosa non si è capaci, il resto è fuffa.

Quel che di socialmente utile potrebbe farsi non è inventare falsi o impossibili lavori, destinati a sfociare nell’assistenzialismo, ma affrontare questo problema lasciando fuori dalla porta la più sciocca delle divisioni, fra i favorevoli e i contrari all’accoglienza, e acconciandosi alla ragionevolezza di accogliere chi scappa, far lavorare chi produce e tenere fuori tutti gli altri.

Davide Giacalone, Il Giornale del 19 agosto 2016

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