La storia del liberalismo. Tra teoria e prassi

La storia del liberalismo. Tra teoria e prassi

Non lasciatevi trarre in inganno dal titolo, molto low profile, perché in verità quella di Antonio Masala appena pubblicata da Rubbettino è una vera e propria storia del liberalismo del Novecento: Stato, società e libertà. Dal liberalismo al neoliberalismo (pagine 302, euro 19).

La particolarità della storia di Masala è che in essa il termine liberalismo è assunto in un’accezione che include, per così dire, la teoria e la prassi. Essa intreccia le idee degli studiosi e le pratiche concrete dei politici che si sono richiamati alla dottrina, mostrando non solo come le prime abbiano influenzato le seconde ma anche come sia valso spesso il rapporto inverso.

Come è noto, il termine con cui sempre più negli ultimi tempi si definisce la dottrina liberale novecentesca è “neoliberalismo” (che in Italia diventa anche “neoliberismo”). È un termine che comporta molte ambiguità semantiche e concettuali, tanto più se si considera che molti “neoliberali” non si sarebbero mai ritrovati in una tale definizione, essendo loro volontà piuttosto quella di ricostituire, con gli opportuni aggiornamenti, la tradizione dell’old liberalism, cioè di un liberalismo originario che la teoria novecentesca avrebbe in qualche modo corrotto.

Le perplessità aumentano poi se si considera il fatto che “neoliberalismo” è ormai diventato uno di quei termini a cui si è come incollata un’accezione negativa che non viene meno nemmeno quando lo si vuole usare in modo semplicemente descrittivo. Ma tant’è! E bene fa l’autore di questo libro, pur con vari dubbi e avvertenze, a seguire quello che ormai è l’uso comune.

New Liberalism (Social Liberalism?)

La storia di Masala comincia con la crisi della dottrina liberale classica così come si manifesta, nell’ambito più generale di una “crisi della civiltà europea” e del “tramonto dell’Occidente”, fra le due guerre mondiali. Ciò che allora venne meno fu, da una parte, la fiducia nel mercato e nella proprietà privata; dall’altra in una teoria costituzionale che, limitando il potere dello Stato, sembrava ormai non adeguata e incapace di far fronte all’avvento delle masse sulla scena del potere.

La tradizione liberale sembrò superata e inadatta ai nuovi tempi, e lo stesso termine “liberalismo” cominciò ad assumere un’accezione negativa. Questo processo, che vedeva i liberali per lo più sulla difensiva, era iniziato in verità già da qualche decennio e, in Gran Bretagna soprattutto, aveva già messo capo a una profonda trasformazione della teoria.

Innestandosi sia sulla tradizione utilitarista di Jeremy Bentham e John Stuart Mill (con la loro idea di massimizzare il “piacere” sociale) sia sulla tarda fortuna anglosassone dell’hegelismo (con il suo statalismo), una serie di autori, fra cui spiccano i nomi di Thomas Green, Leonard Hobhouse e John Hobson, aveva dato vita a una revisione radicale della teoria che prese il nome di New Liberalism. Si trattava in verità di un Social Liberalism, cioè di un radicale tentativo di combinare istanze liberali e socialiste in un’ottica di progresso sociale ed economico. Quello che si ebbe nel liberalismo britannico fu “un cambiamento che riguardava l’idea stessa di politica, i suoi compiti e le sue responsabilità”.

In effetti, “i ‘nuovi liberali’ attribuivano alla politica il compito di riorganizzare il mondo seguendo dei modelli razionali e delle finalità etiche, quasi un ribaltamento perfetto del liberalismo classico, per il quale il compito della politica e del governo era esclusivamente quello di garantire la vita, la proprietà e la libertà degli individui”.

Questo liberalismo socialisteggiante è stato egemone, come Masala ci mostra, in quasi tutta la storia britannica del Novecento, fino a Margareth Thatcher. Esso si è sviluppato in circoli, think tank, club, associazioni politiche e culturali (le più influenti furono, rispettivamente, la Fabian Society e il Bloomsbury Group). Fu comunque John Maynard Keynes a tradurre queste idee in un coerente sistema di interventi economici tesi a rinforzare il Welfare State. Attraverso l’elaborazione del Piano Beveridge (1942), queste politiche avrebbero segnato l’opera dei governi laburisti, a cominciare da quello di Clement Attlee subito dopo la seconda guerra.

L’ordoliberalismo

Alla “crisi” del liberalismo, altri liberali, pur ammettendola, risposero in altro modo, soprattutto in ambito tedesco ove fu elaborato il cosiddetto “ordoliberalismo”. Si tratta di una corrente molto variegata al suo interno, sia nella diagnosi della crisi sia nelle terapie proposte. In genere, gli ordoliberali, fra l’altro molto colpiti dall’omologazione e dal conformismo delle nostre società, tendono a distinguere il capitalismo della grande industria e della finanza, in cui vedono dei limiti, dal capitalismo della piccola proprietà diffusa dei commercianti, liberi professionisti, agricoltori (questa differenza però non vale per il pensiero di uno di loro, Ludwig Erhard, che avrebbe avuto importanti responsabilità politiche, dirigendo in pratica la politica economica tedesca dopo la seconda guerra).

Per la più parte degli ordoliberali, il mercato si basa su dei presupposti (di ordine politico, giuridico, morale) che lo rendono possibile e che vanno coltivati o promossi. Esso, in sostanza, può essere considerato un mezzo per un fine più alto, che non è una “società di mercato”, come vorrebbe una facile critica mossa ai “neoliberali”, ma una società in cui ognuno possa esercitare con responsabilità la propria libertà e coltivare anche e soprattutto fini “spirituali”.

Wilhelm Roepke, che insieme ai rappresentanti della Scuola di Friburgo e a Alexander Rustow, è il più conosciuto esponente dell’ordoliberalismo, non a caso aveva intitolato Civitas humana il suo libro più importante del 1944. Pur rimandando alla puntuale ricostruzione contenuta nel libro per cogliere tutte le sfumature fra di loro e anche insospettabili convergenze e divergenze di pensiero), si può dire che per lo più gli ordoliberali pensano che il mercato, lungi dall’autoregolarsi come voleva la vecchia dottrina del laissez faire, tende per sua natura a creare monopoli e distorsioni varie. Una politica liberale deve perciò non solo intervenire a monte, sulle condizioni di possibilità, ma anche a valle dell’economia di mercato, che comunque resta la più efficiente, e per molti ordoliberali anche la più “morale”, politica economica possibile.

Gli ordoliberali ebbero la possibilità di misurarsi con i problemi della ricostruzione post-bellica tedesca e influirono molto anche sul progetto di costruzione della comunità europea: l’efficacia delle liberalizzazioni e privatizzazioni (controllate) da essi promosse contribuirono a tener alto il nome del liberalismo in un periodo in cui l’ida liberale continuava ad avere poco fascino. La loro idea di promuovere il liberalismo attraverso la politica, che per un liberale classico è quasi un controsenso, troverà sviluppi, come vedremo, nella prassi politica della Thatcher.

La scuola austriaca

Per ora conviene però spostarsi, seguendo il filo del discorso di Masala, in America, ove invece il neoliberalismo ebbe un impulso notevole nell’altra sua variante: quella della scuola austriaca di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek. L’influenza del primo “la si può capire solo guardando al contesto americano, nel quale think tank e fondazioni …iniziarono prima che in Europa un’opera di sensibilizzazione su vasta scala delle idee liberali, ed è proprio nei think tank che le idee (e la retorica senza compromessi) di Mises avrebbero trovato la loro ideale collocazione.

Ma il contesto statunitense è anche indispensabile per capire al contempo l’impatto e la maturazione delle idee di Hayek. È infatti nel nuovo mondo che egli riscosse un inaspettato e imponente successo con The Road to Serfdom, vedendone peraltro radicalizzate e politicizzate le tesi ben al di là delle sue intenzioni e della sua volontà”. L’opera di Hayek, anch’essa del 1944, era stata, in effetti, concepita, proprio mentre l’economista austriaco era impegnato in un’opera di allargamento delle sue idee dall’economia agli altri ambiti della vita sociale, con un intento di promozione verso il vasto pubblico dell’idea liberale, prima di tutto per evitare che potessero riproporsi i totalitarismi che avevano devastato l’Europa. Ciò comportava di per sé una certa semplificazione dei concetti, ma il problema andava probabilmente oltre.

Se Hayek aveva capito infatti che bisognava lavorare per diffondere la dottrina fra gli intellettuali, che per motivi storici erano stati ed erano diffidenti soprattutto verso il libero mercato, gli americani si erano infatti resi conto che, essendo il liberalismo una dottrina molto raffinata intellettualmente e spesso controintuitiva, in una società democratica e di massa era necessario mettere all’opera opportuni accorgimenti per renderlo popolare o con più appeal.

Il merito di molti gruppi americani, spesso finanziati da imprenditori facoltosi, è stato quello di avere iniziato dopo la guerra proprio questa attività di popolarizzazione, e ahimé anche banalizzazione, della dottrina, servendosi di strumenti consoni alla cultura di massa: decaloghi liberali pronti per l’uso, selezioni di opere, antologie di frasi ad effetto, persino spot e trasmissioni televisive. Ovviamente, un pensiero come quello di Mises, così netto e forse addirittura rigido sugli assunti di base del laissez faire, e in questo diverso da quello più “dialogante” di Hayek, si prestava meglio alla bisogna. Ma fatto sta che allora iniziò un processo che avrebbe fatto sì che, nel momento della crisi del Welfare, già alla fine degli anni Sessanta, il liberalismo, soprattutto nei paesi anglosassoni, non si trovasse impreparato e anzi si presentasse, come un progetto politico-economico, come diceva la retorica thatcheriana, senza alternativa.

Friedman e poi Reagan e Thatcher

Hayek, in effetti, oltre a scrivere un’opera divulgativa come La via della servitù, si era prodigato, subito dopo la guerra, a proseguire l’opera di organizzazione dei liberali iniziata con un incontro fra i liberali di tutto il mondo svoltosi a Parigi nel 1938 (il cosiddetto “colloquio Lippmann)”). In poco tempo, la Mont Pélerin Society, la cui prima riunione si svolse sulle Alpi svizzere nei primi giorni di aprile 1947, divenne il punto di riferimento per tutti gli intellettuali liberali. L’originale progetto hayekiano di affiancare agli economisti altri scienziati sociali, e soprattutto i filosofi, in modo da inserire la promozione del libero mercato in un contesto più ampio, fu accantonato.

Ciò avvenne soprattutto perché, ad un certo punto, il leader del movimento “neoliberale” divenne Milton Friedman, il quale, oltre a saper seguire come pochi le modalità di comunicazioni di massa, era di fatto portatore di una visione economicistica del liberalismo. Non solo: poco interessato ai problemi teorici, Friedman si propose il compito di mostrare, con esempi concreti e applicati, come l’interventismo economico non solo non fosse efficiente, ma realizzasse peggio del liberismo quegli obiettivi di giustizia sociale che stavano a cuore ai suoi fautori.

Il terreno era ormai sgombro perché, agli inizi degli anni Ottanta, si realizzasse con Ronald Reagan in America e soprattutto con Margareth Thatcher in Gran Bretagna una vera e propria svolta liberale e liberistica in Occidente. Dopo quella data più nulla sarà come prima: anche democratici e laburisti, una volta ritornati al potere, avrebbero dovuto inserire le loro prospettive politiche in un contesto di totale adesione del libero mercato.

Masala analizza in pagine di indubbia efficacia la teoria e la prassi  thatcheriane, le quali traevano in sostanza la loro forza da un doppio ordine di fattori: da una parte la capacità della Lady di ferro di far passare il messaggio che il declino (politico, economico, istituzionale) della Gran Bretagna era legato al prevalere di politiche stataliste e interventiste, nonché al sopravvenuto strapotere dei sindacati; dall’altra, dalla sua capacità di legare retoricamente il liberalismo al ripristino dei vecchi e semplici (e forse mitizzati) “valori vittoriani” del sacrificio, del risparmio, dell’intraprendenza e della responsabilità. L’operazione riuscì a pieno, toccando forse corde profonde dell’animo patriottico britannico, favorita da circostanze storiche favorevoli e anche da “colpi di fortuna” politici, di cui fra l’altro la Thatcher con grandi capacità di leadership seppe prontamente approfittare.

Il tutto avvenne all’insegna di un paradosso, che il thatcherismo ha consegnato ai liberali del futuro e che Michel Foucault (alle cui riflessioni Masala dedica le conclusioni del suo libro) comprese genialmente già da quando esso era in embrione. Il fatto è che, per sottrarre peso alla politica e allo Stato (le cui funzioni sono cresciute a dismisura nel corso del Novecento), il liberalismo non può oggi affidarsi altro che ad un forte intervento della stessa politica e dello stesso Stato. Un paradosso teorico che però, sembra suggerisce Masala, si porta dietro non irrilevanti impasse pratiche.

Corrado Ocone, Il Dubbio 4 luglio 2018

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