Il fruttivendolo e il fisco strumento del clientelismo

Il fruttivendolo e il fisco strumento del clientelismo

Brano estratto da Lo Stato canaglia (2009) di Piero Ostellino

Una signora entra dal fruttivendolo e chiede un po’ di prezzemolo. Trattandosi di una cliente, il fruttivendolo gliene regala un mazzetto. Ma si raccomanda: “Se la ferma uno delle tasse, non dica che gliel’ho regalato, se no finisco nei guai perché dovrei farle lo scontrino”.

“Ma che gli dico?” domanda la signora. “Gli dica che lo ha rubato” risponde il fruttivendolo che non è ammattito. Ha imparato la lezione dalla merciaia.

Due giorni prima, un’altra signora entra in merceria. E l’ora di chiusura dei negozi e lei ha bisogno solo di una bustina di aghi. Costo: un euro. Ma non ha la monetina. Trattandosi anche qui di una cliente, la merciaia -­ che ha fretta di chiudere ­­­- risolve il piccolo problema come si usa in questi casi: “Non si preoccupi, mi pagherà la prossima volta”.

La signora esce senza scontrino e incoccia “uno delle tasse”. Multa di mille euro alla merciaia. D’accordo, forse la merciaia ha incocciato uno più realista del Re.

Da noi, l’imposizione fiscale calcolata su base nazionale è elevata. In realtà, lo è solo per chi paga le tasse. Se la si ripartisce, invece, sull’intera popolazione passibile di tassazione, conteggiando anche il reddito non tassato (l’evasione), è più bassa.

Quello è, probabilmente, il punto di equilibrio fisiologico fra reddito realmente prodotto dal Paese e tassazione. Forse, è anche il punto di equilibrio ottimale sul quale dovrebbe attestarsi l’imposizione fiscale “se tutti pagassero le tasse”.

Morale:

1) se tutti pagassero le tasse al livello dell’imposizione di chi già le paga, il Paese collasserebbe;

2) l’evasione e il lavoro nero sono la difesa naturale del mercato dallo Stato invasivo (come prova il fatto che il livello di lavoro nero è più alto nei Paesi a più forte tassazione, compresi i Paesi scandinavi cui guardiamo come esempio di moralità fiscale);

3) La soluzione non è quella burocratica che tutti paghino le tasse agli attuali livelli d’imposizione di chi le paga, ma ridurre le spese e abbassare le tasse. Occorrerebbe incoraggiare a pagarle, con opportuni incentivi, e scoraggiare a tentare di evaderle – con disincentivi che costino all’evasore quasi quanto più di quanto gli costerebbe essere un corretto contribuente – in modo da avvicinarsi al punto di equilibrio fisiologico tra reddito e tassazione (come nei Paesi che hanno una pressione fiscale inferiore).

Sembra che gli statalisti e i dirigisti di destra e di sinistra ignorino che la mano pubblica è un pessimo amministratore. Eppure, sono anni che mostriamo ospedali costruiti di tutto punto e mai utilizzati, strade che non portano da nessuna parte, che parliamo di aiuti all’industria, in nome dell’occupazione, che poi si rivelano utili solo agli azionisti.

È mai possibile che i dirigisti non lo sappiano?

Certo che lo sanno. Ieri, la sinistra giustificava lo statalismo e il dirigismo con la lotta di classe, che almeno aveva una sua dignità morale; la destra, con lo Stato etico, che era figlio del suo tempo.

Oggi, lo statalismo e il dirigismo sono solo la manifestazione dell’autoreferenzialità di una classe politica prigioniera anch’essa di quella enorme macchina burocratica pubblica che chiama, impropriamente, Stato di diritto, e che ha costruito non al servizio dei cittadini ma di sé stessa.

Non più, dunque, nel nome di Marx e di Lenin, o di Rousseau e di Hegel, bensì in funzione del successo elettorale.

L’assistenzialismo, il clientelismo, le complicità con un certo capitalismo sono un veicolo di consenso. Che costa. E che qualcuno deve pagare. Il fisco ne è lo strumento. Altro che etica pubblica.

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