Diritto vivente? No, grazie a Cesare Beccaria

Diritto vivente? No, grazie a Cesare Beccaria

L’attuale ipertrofia del diritto penale

ll motivo dominante della politica giudiziaria dell’ultimo ventennio comprendendosi nell’ e-pressione la giurisprudenza dei Tribunali, la dottrina, il commento giornalistico e infine la legislazione — e informato alla severità della sanzione, spesso alla sua anticipazione ben prima della sentenza e, talvolta, all’utilizzo dello strumento penale nella “lotta ai fenomeni”. Al riguardo, un ruolo non secondario nell’ambito della amministrazione della giustizia va attribuito ai frequenti congressi dei magistrati e ai loro interventi “extra moenia” in convegni e contributi giornalistici, nel corso dei quali, insistentemente, si enfatizza il ruolo del c.d. “diritto vivente” anche al di la della normale interpretazione, del dato testuale della norma. A tali tendenze, per la verità, si contrappongono obiezioni e critiche da parte della scienza penalistica e, da ultimo, anche da parte di magistrati singoli e non organizzati, i quali rilevano i seguenti fenomeni: lo sbilanciamento delle relazioni dialettiche tra “norma e giudice” in favore del ruolo di quest’ultimo’; la contrapposizione perdurante tra “giustizialismo” e garantismo; la moltiplicazione delle fattispecie penali che prende il sopravvento sulla concezione sussidiaria del diritto penale (… “dei dieci comandamenti”) inteso quale “ultimo ratio” (e ciò nonostante siano stati introdotti interventi abrogativi su fattispecie considerate “minimali”, che invece riguardano la tutela di interessi individuali magari meno rilevanti net circuito mediatico) ; un sempre più aperto disinteresse delle procure e del circuito mediatico/politico circa la sorte successiva delle ipotesi dei. P.M., operata poi dai Giudici nelle sentenze definitive; infine, ma forse il tema costituisce la sintesi di tutto quanto più sopra delineato, una certa pressione dell’ interpretazione estensiva che smentisce il dato testuale, come strenuamente denuncia la dottrina3, scomodando persino Umberto Eco: “bisogna iniziare ogni discorso sulla liberty di interpretazione da una difesa del senso letterale”. l’accentuazione dell’antico contrasto tra Diritto penale e Processo, particolarmente nell’aspetto dell’imposizione di pene sostanziali da parte del P.M.

Il tema e posto sempre più frequentemente nella riflessione di studiosi ed esponenti politici e riguarda il nuovo fenomeno della “Giurisprudenza delle procure” che ha a che fare con le interpretazioni giuridiche anticipatrici del diritto penale sostanziale che, pur provvisorie, producono effetti molto concreti indipendentemente dai successivi controlli. Vi è qualche motivo di incertezza in ordine all’applicazione costante del “principio di legalità” ricompreso nella Costituzione all’ art. 25, che recepisce il principio di origine illuminista, inteso come certezza di una norma generale e astratta che intende disporre la funzione precettiva di guida dei comportamenti dei destinatari ed essere garanzia di certezza delle conseguenze giuridiche nei casi di in-frazione delle regole.

Dopo il 1993: l’emergenza della moralità

L’emergenza della moralità pubblica, ha posto spesso in forse – più ancora che negli anni del terrorismo e del contrasto alla mafia – la centralità del dato testuale tanto che i cultori della scienza penale sottolineano una crisi della legalità e della giustizia. Tra i vari elementi della crisi si assiste al progressivo decadimento della separazione tra moralità e diritto, fra peccato e reato, tanto che uno studioso estraneo a qualsiasi speculazione politica ha osservato che “chi e cresciuto con l’imperativo categorico di evitare l’feticizzazione del diritto penale si ritrova ora a dover ridiscutere molto di questi slogan”. Non tutti ricordano che la laicizzazione del di-ritto si deve proprio al Beccaria, pertanto, riferirsi al suo “libriccino” nel 2016, non costituisce un semplice omaggio retrospettivo a un’ovvietà piuttosto polverosa circa il superamento della pena di morte e della tortura, ma riaffermare il suo ruolo centrale nell’utilitarismo europeo, cosi come net diritto penale, per non parlare perché questa non e la cede — del suo insegnamento nella scienza economica.

In realtà, Beccaria ù fortemente attuale proprio net contesto italiano del XXI secolo e anzi, per certi versi, il suo pensiero rimane tuttora eversivo net suo proposito originario di laicizzazione del diritto penale, che ha influenzato con fulminea fortuna il mondo una volta scoperto da D’Alembert, celebrato da Hume, evocato da Bentham: “…Maestro mio, primo evangelista della ragione, to che hai elevato la tua Italia tanto al di sopra dell’Inghilterra, e aggiungerei della Francia…” mentre Thomas Jefferson riprendeva da Beccaria i1 testa del “Virginia Bill of Rights”, ispirando anche vari articoli della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino in Francia. I fondamenti del diritto penale liberale, non moraleggiante, non si fermavano certo alla distinzione tra delitto e peccato, coinvolgendo altresì la concezione della pena, che: “è giusta solo quando necessaria” tanto che — come oggi si dice e non si fa — essa deve costituire sempre l’extrema ratio”, come tuttora riconosce la dottrina: “D’altro canto, quando oggi si biasima, dappertutto, la cieca ipertrofia del diritto penale contemporaneo, si riecheggia — come ha notato Wiirtenberger — un altro insegnamento di Beccaria, corollario del principio-guida della “necessità” delle pene: “Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere….è un’crearne di nuovi”. Inutile diffondersi sugli aspetti più noti de “Dei delitti e delle pene” sulla utilità della celerità e certezza della pena, piuttosto che sulla gravità del massimo edittale, così come sulla concezione dell’uomo come fine e non come mezzo o sulla missione universale del Beccaria — che costringe ancor oggi allo studio della lingua italiana gli studenti nelle Università americane — mentre va ricordato tra i temi oggi meno citati (perché decisamente meno gradito), quello del rapporto tra norma, interpretazione e giudice.

Dato normativo ed interpretazione: Beccaria contemporaneo

Nel porre la necessità di norme “chiare e semplici”, in modo che sia consentita ai cittadini la possibilità di conoscere in anticipo le possibili conseguenze penali delle loro azioni, Beccaria ha fondato per primo l’esigenza della codificazione e le basi del principio di legalità con l’ulteriore corollario tipico della cultura illuministica, che vede il giudice come elemento della certezza e prevedibilità e dunque come semplice “bocca della legge”. Del resto, si coglie l’eco del contesto storico e della polemica contro l’incertezza ed il connesso autoritarismo anche nel celebre passo proprio del nipote di Beccaria, Alessandro Manzoni, che nell’episodio dell’Azzeccagarbugli denuncia il fenomeno della legge come privativa della casta degli eruditi, incomprensibile per i sudditi comuni o, nella reazione di Montesquieu contro lo strapotere dei Giudici, che in Francia, come in Italia, facevano quello che volevano, tanto da scrivere: “in ossequio al principio della separazione dei poteri il compito di fare le leggi doveva essere assegnato in toto al Legislatore, e i Giudici ne dovevano venire completamente spogliati”.

Il divieto imposto al Giudice di andare oltre al testo normativo, secondo la teoria del Beccaria, è stato oggetto di critiche e perplessità da parte di autorevolissima dottrina, a partire da A. C. Jemolo fino al Delitala (per fermarci a quella italiana), spettando invece al giudice comunque di dare un senso compiuto alla parola della legge, che rimarrebbe altrimenti espressione vuota senza l’opera dei magi-strati. Non a caso, uno dei più pubblicizzati profeti del “diritto vivente” respinge a chiare lettere l’insegnamento del Beccaria, in nome della tendenza evolutiva dei sistemi giuridici, riaffermando il ruolo più estensivo dell’interpretazione’. Eppure, esattamente in questi tempi del XXI secolo, nelle aule giudiziarie e nei relativi resoconti si sta assistendo alla forzatura delle figure più classi-che del codice penale, come per esempio quella del “dolo eventuale”, che “ha sperimentato nel corso degli anni un fenomeno di espansione applicativa”. Quanto poi alla parte speciale del codice, si registrano scelte estensive e di vero stravolgimento: si pensi alla scelta di un PM torinese, poi recepita da Corti di merito, di contestare un reato prescritto ma con forte effetto mediatico, piuttosto che il più prosaico omicidio colposo, tanto da costringere il Procuratore Generale nella successiva udienza avanti la Corte di Cassazione a richiedere la prescrizione del reato di disastro doloso già consumato nel primo grado e a ricordare — riecheggiando il. Beccaria —che: “ci sono dei momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte. ╚ naturale che le parti of-fese scelgano la strada della giustizia, Ma quando il giudice è posto di fronte alla scelta drammatica tra diritto e giustizia non ha alternativa. E’ un giudice sottoposto alla legge; tra diritto e giustizia de-ve scegliere il diritto”.

I casi della giustizia eclatante che fa scalpore sono sempre meno isolati, e non possono che trovare, più che mai, un argine, nelle “opere perenne-mente necessarie, come “i Delitti” [che] vivono in ogni stagione, in ogni luogo”’. Lo strapotere degli effetti mediatici e la ricerca del facile consenso, del resto, ha costretto di recen-te’5 uno studioso rigoroso a constatare come “troppi giuristi ignorano che “Dei delitti e delle pene” è una pietra miliare del costituzionalismo illuminista e non ne capiscono l’importanza concettuale”. Che dire, dunque, se non rileggere il celebre paragrafo IV de “Dei delitti e delle pene”, più che mai attua-le nella Repubblica delle Procure, essendo dedicato “all’interpretazione della legge, scritto nel nome dei diritti della persona e del principio di legalità e contro l’arbitrio e il dispotismo di settori della magistratura, [che] continua infatti ad essere de-contestualizzato”. In realtà, come nota l’Autore, il vero punto dolente rimane, dopo quasi tre secoli, la poca simpatia “che continua a correre tra l’il-luminista milanese, considerato il padre spirituale del garantismo e il inondo dei giudici”. Le osservazioni scritte dal Beccaria sul nodo fondamenta-le dell’interpretazione rimangono decisive, perché con l’emergenza di certezza pongono un limite autorevolissimo rispetto alle pretese “estensive” dei giudici, spesso sostitutive rispetto alle norme.

Espansione del diritto vivente, sovversione del sistema?

L’esigenza posta dal Beccaria di consentire “ai cittadini la possibilità di conoscere con anticipo le possibili conseguenze penali delle loro azioni” infatti non è una caratteristica aggiuntiva, ma la giustificazione stessa di un Ordinamento liberale, che si fonda sul principio di legalità, al di fuori di cangianti ed imprevedibili innovazioni interpretati-ve volte spesso, come si è visto, a scopi sociali. Il tema è terribilmente serio, poiché l’evoluzione ed il mutamento della giurisprudenza riguarda scelte di politica normativa che competono al Legislatore, importando, tra l’altro, anche questioni di uguaglianza di trattamento dei cittadini. in sostanza, nonostante la sottile insistenza, spesso posta al di fuori della comunità scientifica, non si può che ribadire che il “diritto vivente”, non ha — e non può assumere — valore formale e sostanziale di legge: la questione è centrale per l’equilibrio costituzionale dei poteri e per il sistema. Sul punto, va richiamato il commento di uno studioso prestigioso come Pulitanò che, nel 2015, osservava: “Contro tendenze ad accostare alla legge la rilevanza della giurisprudenza e del mutamento giurisprudenziale, ha preso posizione la Corte Costituzionale nella sentenza n. 230 del 2012, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. nel-la parte in cui non prevede la revoca della sentenza di condanna nel caso di mutamento giurisprudenziale (….) Questa sentenza di forte cifra politica ha bloccato una deriva verso una sovversione del sistema, che sarebbe andata ben oltre la pretesa di vincolare il giudice dell’esecuzione al dictum reso dalle Sezioni Unite di un altro processo: sarebbe stata una sovversione del rapporto di soggezione del giudice soltanto alla legge (come proclama l’art. 101 cost) (…) Certo, restano aperti problemi seri, di uguaglianza di trattamento a fronte di mutamenti correttivi -(in bonam partem) del diritto vivente in giurisprudenza”.

Come si vede, la concezione del giudice “bocca della legge” cara a Montesquieu contrasta quotidianamente con la pratica italiana di oggi e diventa ancor più inquietante se si pone il punto di osservazione sulla fase iniziale e nel momento di valutazione del Pubblico ministero all’atto dell’avvio delle indagini, quando quest’ultimo ipotizza la formulazione dell’imputazione e richiede le misure cautelari, le intercettazioni e le perquisizioni, in quella che è stata definita la “giurisprudenza delle procure”, che, nient’affatto “preliminare”, incide direttamente sul singolo, sulla scena politica e in quella delle imprese. Proprio questa nuova “giurisprudenza” che il P.M. crea, costituisce un’ulteriore occasione d’interpretazione “ipotetica”, al di fuori di ogni rigore normativa e in assenza di effettivi controlli e strumenti in concreto efficaci. Ciò, porta un ulteriore contributo all’ipertrofia del penale. il fenomeno, non a caso è divenuto ormai oggetto di studio della scienza politica, che rileva come l’inceppamento della democrazia rappresentativa, il “potere vuoto”, lasciano spazio a tendenze che si “trovino sotto forra di controllo della virtù politica che l’opera delle opposizioni e la sanzione delle elezione si sono dimostrate incapaci di esercitare “‘.

Come si vede, ritorna più che mai attuale l’in-segnamento del filosofo milanese secondo il quale “nemmeno l’autorità d’interpretare le leggi penali può risiedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori”. Il pericolo “di falsi raziocini o dell’attuale fermenta degli umori di un giudice” può portare, secondo il maestro lombardo, ad una diversa forma di “tirannia” e “dispotismo”, tanto che egli si schiera contro la casta dei cultori della giurisprudenza quando essa tende a sovrapporsi alla legge corrompendola e concludendo con l’affermazione: “felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza”. Ben si comprende perché la dottrina moderna più autorevole riconosce che “in Beccaria la tematica processuale ha una centralità così marcata da assumere un rilievo forse ancor più innovativo di quello del diritto sostanziale”. Come si vede, Beccaria — da rileggersi e studiare — deve oggi la sua attualità molto meno all’abolizione della pena di morte e della tortura e molto più al suo messaggio sulla centralità. della nonna e sul limite all’arbitrio, di fronte ai valori delle prove e della libertà della persona”.

Il primato della legge, come conseguenza del-la separazione dei poteri

Proprio in tema della libertà della persona, il monopolio esclusivo del testo normativo, non può che essere ancor più rigoroso, ed il Giudice non può che essere esecutore della volontà del Legislatore, e ciò non solo per l’insegnamento di Montesquieu sulla separazione dei poteri, ma più intrinsecamente, per la metodologia deputata al giudice: “In ogni delitto si deve fare del giudice un sillogismo perfetto: la maggiore deve essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà e la pena”. Viene da ricordare l’insegnamento di un vecchio maestro di procedura e filosofia del diritto, come Pompeo Biondi che, studiando in particolare il potere nella democrazia, opera una netta distinzione tra la sfera della legalità e quella del potere, tanto che ove si crea una coincidenza tra la prima e il secondo si determina un pericolo di spinte giustizialiste, nelle quali l’amministrazione della giustizia penale rischia di essere utilizzata come occasione di lotta politica.

In tale quadro, reso difficile in tempi di diffusa “voglia di forca” del popolo, il primo limite regolatore del sistema risiede nel rigore dell’interprete — secondo il testo e la logica — e, naturalmente, nel meccanismo dei gradi di giudizio, ove i giudici non possono cedere né al semplicismo, né al “giustizialismo”, inteso questo come quel perenne sentimento collettivo e di massa che esaspera un’istanza di giustizia immediata, costruita su parole semplici, spesso in nome dell’evidenza pregiudiziale del reo e che piega la norma al di là della legalità e la pena a] di là della proporzionalità. In questo senso, l’attualità del “libriccino” risulta proprio nel rapporto con la norma positiva e, al di là di ogni incertezza, quale manifesto delle garanzie del singolo cittadino posto da Cesare Beccaria, illuminista e liberale.

Giammarco Brenelli, Libro Aperto luglio/settembre 2016

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