Cari intellettuali liberali, risparmiateci la lezione sul bagno di realtà gialloverde

Cari intellettuali liberali, risparmiateci la lezione sul bagno di realtà gialloverde

Intellettuali liberali e governo gialloverde: l’analisi di Giuliano Ferrara sulle pagine del Foglio

Giovanni Orsina è un bravo professore, genere Luiss, che un tempo ci fece la cortesia di accettare i nostri inviti a scrivere nel Foglio e ama editorialeggiare con succo e spesso con costrutto sui temi più attuali, ma su uno sfondo di storia e di antropologia, genere Galli della Loggia, e nel frattempo ha scritto buoni libri di analisi della società e della politica italiane. Il giro giornalistico e politico è quello di un Marco Damilano, di cui non sarebbe eccessivo notare una certa mediocrità andante e sorridente, e di un Gaetano Quagliariello, un vecchio radicale poi perdutosi a sorpresa nei meandri del tradizionalismo cattolico, in area berlusconiana, infine nei gruppuscoli postberlusconiani escogitati ad personam in una carriera parlamentare che, detto con rispetto per le scelte individuali, non sarebbe esagerato definire tortuosa. Questo per dire il contesto.

Orsina è fissato, in senso buono, su un concetto che fu la ragion d’essere di questo giornale per molti anni, e in parte lo è ancora: l’antiberlusconismo moraleggiante è stato una catastrofe per la sinistra, ed è alla radice del suo dissidio con la realtà, che ha portato all’attuale eccesso di realtà. Noi su questo tema ci impegnammo in una scaramuccia di vent’anni o giù di lì, e ancora insistiamo ora che Berlusconi se l’è mangiato il Truce, brutta sorpresa, e il professor Orsina ha seguito l’andazzo chiarificando molte cose con verve accademica. Chapeau.

In un recente editorialissimo sull’Espresso, Orsina si allarga. Afferma che i rivoluzionari napoletani del 1799 erano anche loro fuori della realtà, e ne patirono le conseguenze come sempre l’intellighenzia quando è disutile e non s’incontra con il popolo, come ricordò Vincenzo Cuoco nel suo famoso saggio. Giusto. Qui abbiamo pubblicato pezzi paradossali e molto borbonici del compianto Ruggero Guarini, uno che i giacubbini se li mangiava per colazione, tanto per dire che vedevamo i limiti dei democratici e liberali del ’99, non parliamo della sinistra frou-frou dei nostri anni, ma abbiamo anche letto La Sanfelice, magnifico romanzo di Alessandro Dumas in cui si racconta tra amore, ardente idealità politica e violenza plebea e tribale lo scontro tra mondi che portò al massacro lazzaro della rivoluzione napoletana. A noi piace la verve professorale storicistica, ma siamo gente di passione, e dunque non capiamo bene come si possa, che è quel che fa Orsina, dire giustamente che gli intellettuali di sinistra hanno fallito nel confronto con le pulsioni reali della società italiana e occidentale di oggi, e contemporaneamente beatificare la realtà dei sondaggi, in una neanche troppo sofisticata apologia dell’adesione lazzara e neoborbonica dei risentiti, maggioritari per quanto siano, alla rivoluzione gialloverde.

Anche in America gli oppositori del Big Truce del posto, e ce n’è di liberal ma anche di conservatori e di liberali, rischiano di abbandonare ai suoi visceralismi e semplicismi brutali il mondo incantato che a Pittsburgh, come qui nella Pisa raccontata da David Allegranti, si è consegnato mani e piedi al demagogo di turno. Ma non per questo mollano il liberoscambismo, la globalizzazione, i diritti dell’individuo e del cittadino, una lingua che non sia composta di settecento vocaboli, l’uso appena accurato della ragione e della sintassi mentale. Non per questo riscoprono in tutta fretta i benefici liberali dell’identità pulsante e della nazione combattente. Si oppongono, si battono, in una imperfetta unità tra correttisti politici e scorretti non vaneggianti. E per quanto vada di moda la necessità stringente dell’autocritica, perfino nelle cene del Pd, mal sopporterebbero un accademico di tracciato liberale che gli faccia la lezione su quanto è bella grande la realtà e su quanto ci si debba accomodare a essa. Benedetto Croce era un cinico maestoso, e pensò a tutta prima di poter essere lui, con la sua religione della libertà, a usare il fascismo montante, non l’opposto, come poi fu.

Ora io capisco che per chi magari ha teorizzato e con buoni argomenti varie forme di terzismo, quando si scatenava l’ordalia i cui frutti sono infine caduti in mano al Truce e ai dementi che lo accompagnano, grazie al sovversivismo delle classi dominanti, ora sia il momento della vendetta contro i gioviali carnefici del realismo politico; e capisco anche il risentimento tipico dei liberali italiani, che col tempo è diventato un po’ un vezzo, con tutti i difetti delle vanità di gruppo, verso il ciclo aperto dagli anni Sessanta, cominciato con la rivoluzione culturale e finito con la rivoluzione neoliberale, sempre col nasino all’insù di coloro che ci tengono a essere nel giusto, dalla parte giusta della storia, capisco bene, ma non è che per ritorsione verso i numeri da circo di un Cacciari, un uomo molto intelligente sempre pronto a spiegare quel che non ha capito tanto bene, uno poi alla fine si accomoda alla lode della rude razza proletaria e nazionalpopulista dei Toninelli e dei Di Maio, e alla dannazione del riformismo disarmato delle élite. Qui c’è brutta gente al potere, e un paese che fa arrossire per i suoi comportamenti sociali e elettorali, intanto che a cena da Calenda si decide il famoso “che fare?”, forse è opportuno che i liberali non al Barolo superstiti non si facciano incantare dal bagno di realtà, e si provino in un esercizio non proprio di loro gusto, resistere.

Giuliano Ferrara, “Il Foglio” 18 settembre 2018

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